A FELICIDADE
di
Guido Pegna
“Guidavo lentamente lungo la tortuosa
strada in salita che porta al belvedere di Monte Urpinu. Il chiacchiericcio ininterrotto di mia moglie
al telefonino con qualche amica mi impediva di pensare.
Come facevamo tanti
anni prima, stavo girando a vuoto per la città. Cercavo di ricordare l’intimità
che esisteva fra noi e che si era spenta da tanto tempo. La guardai: un bel
profilo, capelli biondi lunghi mossi dal vento, mani curatissime. Dalla radio
veniva una soffice musica jazz: l’orchestra di Count Basie, poi la voce di
Billie Holiday che cantava il suo amore disperato per Lester. Io ricordavo.
Ricordavo, e in silenzio trattenevo le lacrime. Ricordavo la spensieratezza, la
leggerezza di quando una ventina di anni prima giravo anche allora a vuoto per
la città della mia felicità, e ora della mia infelicità, con un’altra ragazza,
quella che più ho amato, con le prime bosse nove di Joao Gilberto sui dischi da
45 giri che suonavano nel mangiadischi che avevo in macchina - Chega de
saudade, A Felicidade, Saudade da Bahia - e come eravamo felici, e
come la comprensione fra noi era così perfetta, come mai più in seguito mi è
capitato, e la nostalgia, il rimpianto, lo sconforto che vivevo ora. E pensavo:
come potrò mai comunicare tutto ciò a questa cretina. Come posso continuare a
vivere in questa mascherata superficiale di vita in comune. Come profonde e
serie e totali e immense erano le emozioni di allora. Quanto spreco sto vivendo
ora con questa idiota. Quanto mi impedisce di concentrarmi nel ricordo con
questo chiacchiericcio insulso. Quanto mi ha costretto a seguire stupide
liturgie che mi avvelenano e mi porteranno alla morte cerebrale: il bacetto
prima di uscire di casa e poi al rientro, il fingere di interessarmi al suo
stato di salute: come va questa mattina? Il dovere rispettare pignolescamente
orari di pranzo e di cena. Devo ucciderla, pensai. Se non la uccido subito
soccomberò in breve tempo a qualche ridicola malattia mortale causata dalla
infelicità e dalla depressione in cui mi trovo precipitato a causa di questa
idiota.
Decisi
di ucciderla. Devo ucciderla per salvarmi, pensai. Devo ucciderla, pensavo,
mentre guidavo dolcemente in una tiepida meravigliosa mattinata di primavera
con la musica di Antonio Carlos Jobim nel sottofondo.
La maledetta si allacciava sempre la cintura
di sicurezza, era molto rispettosa delle norme e teneva enormemente alla
propria sicurezza. Così, fra i vari modi per ucciderla e farla franca:
incidente stradale, strangolamento e seppellimento del cadavere, una rapina
andata male eseguita da un sicario, sparizione in mare, avevo scelto. Nella mia
macchina, una dignitosa vecchia
decappottabile, avevo quasi completamente svitato il punto di aggancio
della cintura di sicurezza dal lato del passeggero, in modo si staccasse alla
minima sollecitazione, e avevo staccato il collegamento del detonatore che
provoca l’esplosione dell’air bag. Anche se la carcassa della vettura fosse
stata esaminata dopo l’incidente, queste manomissioni sarebbero apparse come
dovute all’anzianità della macchina.
L’idea era la seguente: avrei portato la macchina su una strada che costeggia
un burrone come per godere del bel panorama, per esempio la strada che scende
con curve strettissime dalla sommità del colle di San Michele e che ad un certo
punto costeggia pericolosamente un orrido oscuro vallone al fondo del quale,
sommerse dalla vegetazione, si vedono carcasse di automobili e di motorini
bruciati. Chiacchierando del più e del meno, le avrei raccontato la storia del
castello. Di quando, secoli fa, sotto la
dominazione aragonese, il viceré Berengario I fece ricostruire il castello
inglobando entro le mura ciclopiche i
resti di un antico monastero e facendone la propria residenza. La fortezza era
anche il rifugio dei suoi sicari e malfattori, la versione sarda dei bravi del
Manzoni, da cui partivano per le scorrerie che faceva compiere nei feudi
circostanti. Che poi erano gli attuali Sestu, Selargius, Elmas e i villaggi
vicini che ora fanno quasi parte della città e che si vedono dall’alto del
colle di San Michele.
Percorrendo a gran velocità la strada in
discesa al margine del precipizio, in
una curva avrei sterzato bruscamente verso il burrone gettandomi
simultaneamente fuori dall’auto in modo da cadere sulla strada, mentre l’auto,
con il suo abbrivio, avrebbe sbattuto molto violentemente contro il guard-rail
ai bordi del precipizio fracassandosi. La poveretta non avrebbe avuto scampo.
Proiettata fuori dall’auto avrebbe fatto un volo pauroso da un’altezza di una
cinquantina di metri per finire in fondo al baratro, lo stesso da cui, come
narrano le storie dell’epoca, venivano scagliati nemici e oppositori del
tiranno viceré spagnolo. La povera Rosa sarebbe morta sul colpo in quello che
sarebbe sembrato un tragico incidente stradale.
Mi sono risvegliato in un letto d’ospedale. Non ricordo nulla di quello che è successo. L’ultima cosa di cui ho coscienza è che avevo progettato di scagliare l’auto con dentro mia moglie contro il guard rail che costeggia il burrone del colle di San Michele. Vedo immagini baluginanti della città bellissima, illuminata dalla luce dorata del sole al tramonto e della campagna tutto intorno, e mi gira per il cervello, ricorrente come in un incubo, la commovente melodia di A Felicidade, e le parole: Tristeza não tem fim½Felicidade sim…½Tao leve mas tem a vida breve, ma non so altro.
Mi
sento molto male. Mal di testa fortissimo, tremore diffuso in tutto il corpo,
dolori lancinanti al ventre. È il normale decorso dopo un grave shock, così
hanno detto i medici. Ma le mie condizioni stanno peggiorando di ora in ora.
Non so fino a quando potrò continuare la registrazione di questo resoconto.
È
passato un altro giorno. Ho saputo che sono stato fuori conoscenza nelle ultime
12 ore. Sento che sto morendo. Sto davvero morendo. Non ho neanche la forza di
attirare l’attenzione dei medici su ciò di cui sono ormai più che sicuro: non è
lo shock la causa della mia morte, che facciano qualcosa, che facciano subito
qualcosa.
Oggi,
in quello che sarà il mio ultimo sprazzo di lucidità, ho avuto come una
visione. Mia moglie era seduta al mio capezzale, bionda, bellissima, e accanto
a lei c’era un bell’uomo alto, prestante e abbronzato. Lei, china su di me,
parlava lentamente, come a un bambino che non capisce, e i suoi capelli mi
accarezzavano le guance.
-
Caro, vedo che stai molto male. Hai ormai poche ore di vita, così i medici, e
così anche la mia opinione. Vuoi sapere cosa è successo? È semplice. Già da un
po’ avevo intuito quello che ti girava in mente. Ti vidi una sera trafficare
all’interno della macchina. Il mio amico qui aveva capito cosa avevi fatto, e
allora ha rimesso perfettamente a posto l’attacco della mia cintura alla scocca
dell’auto. Una sera poi ti vidi studiare
al computer i meccanismi dell’air bag. Ne ebbi conferma quando andai a vedere
sul browser gli ultimi siti che avevi visitato. Ah, a proposito, ti presento
Marco, che forse riesci ancora a vedere nitidamente -, disse con un sorriso,
appoggiando una mano sul suo braccio. - Marco è il mio amante da qualche tempo.
Vuoi sapere cosa è successo quel giorno?-, disse, e non distinguevo ormai più
fra quello che poteva essere un sogno e quello che avveniva davvero lì, accanto
a me, al mio letto di morte. Lei intanto proseguiva:
-
Tu sei stato sbalzato fuori dalla macchina, hai sbattuto da qualche parte sulle
rocce poco più in basso oltre il guard rail e sei svenuto, ma non eri ferito in
modo grave. Ma questo mi era indifferente, perché il tuo destino era segnato.
Io invece ho avuto più fortuna. La cintura di sicurezza e l’air bag mi hanno
salvata. Ti chiedi perché stai morendo in questo letto d’ospedale senza poter
fare nulla, non è vero?-
Fece
una lunga pausa, e mi guardava con un sorriso di grande tenerezza. Mi accarezzò
la fronte e i pochi capelli che mi restavano. La rividi com’era bella,
vent’anni prima, quando mi ero innamorato di lei, in quelli che avrebbero
dovuto essere i migliori anni della nostra vita e che invece furono l’inizio
dell’atroce tormento. Poi riprese:
-
Caro, ora che non puoi più fare nulla per salvarti, né per fare sapere ai
medici cosa ti sta succedendo, posso svelarti la verità. Questo mio compagno
che forse intravedi qui mi ha molto aiutata. Lui è un bravo ricercatore
chimico. È stato semplice. Mi ha procurato qualche grammo di solfato di tallio,
che ti ho somministrato con il caffè in piccolissime dosi in queste ultime
settimane. Oramai sei condannato. Il tallio è un veleno che non lascia tracce,
e che agisce dopo molto tempo dalla somministrazione. Se chi esegue l’autopsia
non sospetta l’avvelenamento da tallio, questo non verrà mai scoperto. Nessuno,
quando sarai morto, sospetterà -.
Allora ho capito. Come in una allucinazione
che uno vive pur mantenendo un barlume di coscienza, ho capito perché la
maledetta negli ultimi tempi era diventata così gentile. Mi sbaciucchiava nei
momenti meno opportuni, mi portava personalmente il caffè dopo pranzo, cosa che
non aveva mai fatto prima, mi guardava languidamente mentre lo sorbivo e mi
sorrideva. Ho capito perché avevo cominciato a soffrire così spesso di mal di
testa, di tremore alle mani, di disturbi alla vista. Perché ero sempre così
stanco. Avvelenamento da tallio, che agisce lentamente, lentamente, a distanza
di giorni e di settimane. Io, Guido Pegna, sono vittima del più classico e
antico modo per uccidere qualcuno e farla franca, l’unico modo che io, come un
cretino, non avevo preso in considerazione nella mia mortale disamina dei vari
modi per compiere un delitto perfetto”.
Questo
resoconto, inciso con una voce che verso la fine diviene quasi incomprensibile,
era su un piccolo registratore digitale che ho trovato sotto il cuscino di
morte del mio caro amico. Non lo consegnerò alla polizia. Ho a che fare con
persone spietate e decise a tutto. Ma questa è la mia occasione: esso mi
arricchirà o mi ucciderà.
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