LA FUGA
di
Manuel Matta
La prima
sensazione fu d'incredibile tranquillità e pacatezza apparente, da me, uomo
d'oltre quarant'anni, intento a fare il nulla. Poco prima che arrivaste, sedevo
su di una panchina in legno chiaro d'assi distaccate e d'antica pittura verde.
Osservavo una piazza quadrata, verso il centro della città, dal suolo coperto
di pianelle rettangolari che s'intendeva fossero state bianche, e che ora,
invece, dal risvegliarsi d'un numero incredibile di piccoli uccelli a
svolazzare qua e là da un ramo all'altro, nel mentre del loro volo venivano
decorate, quelle piane rettangolari, dei loro bisogni. Stavo seduto, vi dico,
su quella panca, da prima mattina, dapprima che il Sole colorasse il giorno;
nessuno girava per quella piazza, pochi sulle strade, ed alcuna anima nelle
vie; tanto meno s'erano ancora svegliati gli uccelli sui grandi alberi che
ombreggiavano la piazza quadrata. Poco dopo l'alba, centinaia di versi
riempirono l'aria fresca di primo mattino. Quegli enormi alberi dalla grande
chioma, che di sotto quasi coprivano il cielo, non erano da meno: da molti cadevano
fiori rosati e bacche che si impelagavano scuri sul bianco. Tutto questo
osservavo, mentre cominciava il giorno: dal piccione che frugava di sotto alle
foglie vecchie cadute dai cespi, qualcosa da potersi nutrire, al fiore rosa che
cadeva lento trasportato dal vento leggero, sino a terra, ove il primo
marmocchio in bicicletta lo spalmava sulla pianella, decorandola nuovamente suo
malgrado. Ma che gli importava d'una macchia in più o in meno? Mica vi pensava
sopra.
Ed io, che penso? Semplice.Vedo un
punto bianco su di una pianella lercia, abbandonata; vedo quel punto sporcarsi,
divenire lercio a sua volta. Quel punto ch'è stato pulito ed ora non lo è, non
è lo stesso di prima. Semplice. E la pianella intera, di cui quel punto faceva
parte, non è la stessa.
Poi arrivate. Camminate sicuri sul
marciapiede grigio, nella luce del Sole crescente. Da lontano, avanzate a passo
sicuro sino all'ombra della piazza. Qui v'inquietate: non camminate più
diritti, ma comunque senza stenti: cercate energicamente d'evitare ogni
incrostazione più evidente. Vedo che portate delle scarpe nuove. Ecco svelato
il segreto. Non inciampate, v'osservo ancora per un po', senza stupirmi: non
inciampate mai, in quel cammino per voi irto d'ostacoli minacciosi per le
vostre nuove e lucide suole. Cammino che, guarda il caso, vi porta a sedere
proprio accanto a me.
"Quale fatica," dite,
"ad attraversare questa piazza! Com'è sporca, vedete? Mai visto
un'abbandono simile."
"Abbandono... sì," dico io,
"avete trovato una giusta parola. Anch'io descrivo, in simile modo, questa
stessa piazza."
"E' qui da molto?" chiedete.
"Da un po'. Non saprei dire."
Vi sorrido, scrutandovi negli occhi. Mi chiedo quale bisogno abbiate di parlare
con me.
"Non trova che queste vecchie
panche siano scomode? E troppo, aggiungerei... così piene di spine e schegge,
non convenite?"
"Signore, a me il vissuto non
dispiace. Trovate più comode, invece, le panche in ferro e pasticciate?"
"Perché, non sono da noi vissute
anch'esse?"
"Non lo nego. Eppure, preferisco
queste vecchie panche in legno. Sapete perché? - Come potreste! - Vi dico: mi
fanno pensare, ecco perché. Pensare che prima erano qualcos'altro, ed ora non
più."
Al che v'incuriosite.
Vi spiego quel che dico sulle pianelle
della piazza, ed il concetto generale che vorrei esprimere. Ma non mi pare
d'avervi spiegato quel che intendo, poiché non sembrate capire. Far
comprendere non ciò che si dice ma ciò che s'intende, ch'è differente,
ed incredibilmente più difficile. Mi guardate con tanto d'occhi.
No non è lo stesso discorso vi
rispondo: non con la polvere! Quella si toglie, si spazzola via. Intendo un
cambiamento ben più radicale. Ma, in un modo o nell'altro, non nego, avete
ragione anche voi.
Non statemi a sentire, vi dico. Io
divago, non datemi retta.
"Lei è di qui?" mi chiedete.
"Ci sono nato e cresciuto."
"Bene - bene, allora: si da il
caso ch'io mi sia trasferito da poco. E mi sento a disagio, come un pesce fuor
d'acqua: poiché mi perdo, capisce? mi perdo ovunque: per andare a comperare il
pane; per andare al posto di lavoro; passeggiare con mia moglie, poi,
un'impresa! Non ci raccapezziamo più ove d'improvviso ci troviamo! E'
seccante."
"Dunque, che vuole da me?"
"Che mi guidi. Su e giù per la
città. Mi faccia scoprire i suoi angoli. I suoi segreti. Sono pronto a
seguirla."
"Caro signore," vi dico, con
un gran sorriso ironico, "certamente vi potrei guidare per la città; ma
farvi scoprire i suoi segreti!"
"Faccia del suo meglio,"
dite. "Sembrate una così brava persona. Potrei anche ricompensarvi."
Va bene, penso. Macché ricompensa, vi
dico, lasciate perdere. Tanto, non avevo altro da fare.
Cominciamo dalla via centrale, di
fianco alla piazza. La via centrale è molto grande. Su di una lingua di terra
senza asfalto, vi cresce dell'erba ed alti alberi che ombreggiano la via. Da
anch'essi discendono leggeri alcuni fiori rosa. Su entrambi i lati, delle
vetrine, ed alti palazzi di case e rispettivi balconi; alcuni sono vecchi, si
vede dalle loro forme antiquate, ricche di rotondità e geometrie. Le fronde più
alte degli alberi al centro della via giungono fino alle finestre degli ultimi
piani. Questa via, vedete, porta un po' dappertutto. Sul suo limitare pare si
formi una collina: guardate l'incrocio, com'è ampio, e l'antico monumento
innanzi. La città è ricca di monumenti e statue; tant'è che se si ha un poco di
buona memoria, ci si potrebbe anche orientare. No, non mi chiedete nomi: non
saprei dirvene nemmeno uno. Vedete quei vicoli? Non ne conosco i segreti, come
m'avete chiesto; sono delle scorciatoie. Quest'altra via è più larga; più
avanti si trova il mercato, ed il parcheggio, è pieno d'alberi! Guardate quei
due, quella ragazza ed il ragazzo: si baciano con passione; come chi ancora non
si conosce a fondo, ma prova un'incredibile curiosità nello scavare entro
l'altra persona, sino a scoprire gli angoli più bui. No, non li conosco.
Torniamo sulla strada principale. Vedete quegli altri due? Litigano. Lei, sta
ferma sul portone, forse del suo palazzo, sta ferma con le braccia incrociate e
non lo guarda negli occhi, ma osserva la strada, forse senza vederla per
davvero, forse a cercarvi una risposta che non trova; lui, innanzi a lei, agita
le braccia, indica con due dita ed il resto dei pugni chiusi, quasi le grida in
viso le sue ragioni. Lei è bella, ha i capelli ricci e castani; lui ha una
faccia da idiota. Forse lei, la ragazza, ha ragione. O forse no. Immagino, vi
dico. Sono sconosciuti. Alla fine siamo tutti sconosciuti. Io e voi; quei due
lì; gli altri ora alle nostre spalle; le persone che camminano di fianco a noi,
vecchi o giovani, di mezza età o appena maggiorenni: vivono la loro vita
separata da tutte le altre che per strada s'incrociano, senza mai conoscere
nulla. Oltre le nostre illusioni più veritiere rimaniamo sempre sconosciuti. Su
queste strade io vi sono cresciuto. Eppure, non le conosco affatto.
Queste strade, così piene di ricordi.
Entro quel grosso portone in legno scuro, lì v'ho fatto il liceo. Lì invece
stavano delle panchine simili a quella della piazza, in legno: tutte sradicate,
vedete? Solo quelle in ferro rimangono e pasticciate: vissute; come io ho
vissuto le assi di legno scheggiate. In quel cinema, là sulla sinistra, ho dato
il mio primo bacio. L'ho sposata, sapete? In una chiesa pocolontana. Non la
vedo da parecchi anni. Abbiamo avuto due figli, tutti e due grandi oramai;
anche loro, m'hanno lasciato solo da parecchio tempo. E solo, vi dico, lo ero
dapprima e lo sono stato anche in compagnia. La verità, signore, è che io sono
un buono a nulla. Perso nei miei pensieri che sono la mia realtà, e la realtà
ch'è di fuori, a stento riesco a scorgerla. Ma torniamo indietro, vorrei farvi
vedere dell'altro.
Che vedete? Uno scorcio?
Veramente bello, trovate? Le rocce e
l'erba che vi cresce di sopra, con i cespi ed arbusti verdi.
Venite con me, vi dico: vi porto fuori
da questa città.
Non si è scelto di nascere qui, in
città. La città non è naturale, ma voluta. Non da noi; da chi prima di noi
stessi: d'altri noi, è stata voluta e costruita, d'altri uomini, come noi e
diversi allo stesso tempo. Si trova una grande strada a quattro corsie, con un
continuo frastuono del transitare delle macchine, vi si cammina di fianco. Dopo
un bel po', siamo fuori dalla città, e la raggiungiamo.
La campagna. Quale bellezza! Il vento
leggero che dondola l'erba, la fa ondeggiare. Vedete, gli alberi lontani?
Sentite. Sentite che silenzio! Qua,
tutt'attorno, nella campagna che ci circonda, nella natura!
Penso sia incredibile, vi dico: che in
una sola città si possa condensare tutta la tua vita. Non sono mai uscito di
qua. Tutto ciò che ho vissuto, tutto ciò che ho visto, l'amore che ho dato e
ricevuto, le occasioni che ho perduto e quelle prese al volo... tutto qui, in
questa città, che ogni giorno, come i miei stessi ricordi, cambia. Anch'io
cambio.
Cominciate a capire?
Come sarebbe a dire, "che domanda
è questa"? In che modo potrei io sapere quel che più intimamente vi
riguarda e v'appartiene - le vostre scoperte, le vostre intuizioni - come
potrei io sapere, conoscervi a tal punto? Come voi pensate di conoscervi
a tal punto?
Se mai aveste pensato, solamente per un
momento, che capire chi voi siate veramente, sapervi riconoscere all'interno
d'un contesto cittadino e sociale, fosse, come dire, una banalità, seppur a voi
importante - di spessore: che diamine, si parla di voi, di voi stessi,
della persona che v'appartiene - come sapere che quello stesso viso è il
vostro: signore, voi v'ingannate.
"Voi siete tanto una brava persona
quanto siete strano," dite.
Io non lo so. Non so più chi sono.
Molto, oramai, non so più.
Volete tornare in città? Come
preferite.
Ricordate la strada? Non saprei
riaccompagnarvi indietro. Meglio così, che la ricordiate bene. Sapete che vi
dico?
Io rimango ancora un po'... ancora un
po' qui.
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