venerdì 6 giugno 2014

Prima persona singolare (Canto d'amore per la città del cuore)


Prima persona singolare
(Canto d'amore per la città del cuore)
Di Nike Gagliardi
1° classificata

Creo la mia creatura. La scrivo come maschio, umano. Lo faccio nascere da una madonna proletaria, lo sguardo allucinato per sempre da una sacra annunciazione indotta da oppiacei.

Gli scrivo attorno il centro storico di una città piccolissima, un paese nel paese. Un luogo magico di vicoli stretti, così stretti che non puoi nemmeno aprire le braccia per intero quando ci passi in mezzo. Dove l'erba cresce sui tetti, serpeggia fra le antiche pietre dei muri, incornicia le finestre senza vetri degli edifici abbandonati (occhi cavi, denti mancanti sulle loro facce-facciate).
Gli regalo corti nascoste e favolosi giardini segreti, cosicché possa avere un'infanzia di recinzioni da scavalcare, ricca di ginocchia sbucciate. In modo che gli si radichi dentro la coscienza che dietro ogni muro si cela il sogno delicato di un giardino. Gli offro chiesette microscopiche e fredde, dove cristi dall'espressione surrealmente vera lo minacciano con la propria sofferenza dall'ombra di una croce, la vernice che si stacca dal candore delle guance, l'eterna passione di un restauro che non arriva.
E ancora: il profumo delle pesche e delle fragole, ordinate nelle loro cassette di legno davanti al negozio del fruttivendolo, il piacere e il batticuore d'infilarsene una in tasca e correre via. L'inizio delle sue prime estati.
Gli scrivo venditori ambulanti di lumache, con ancora addosso l'odore di terra e pioggia, perché possa supplicarli di avere qualcuna di quelle creaturine in regalo, per poi scommettervi sopra insieme ai bambini del quartiere in un improvvisato ippodromo per molluschi. Gare all'ultima scia di bava.
Scrivo viottoli costellati di botteghe, in cui il puzzo di piscio si confonde col profumo delle spezie, e in cui al dialetto duro e sibilante della città fanno eco lingue provenienti da paesi lontani, e di cui lui, ancora bambino, non ha che una vaga idea.
Terre d'oltremare che si mescolano in una geografia fantastica.
Gli regalo stradine eternamente decorate a festa dalla varietà multicolore del bucato steso. E quando è vento, lenzuola e calzoni, mutande e camicie smettono di esser tali, ma tendendosi, frustando e ricadendo, divengono furiosi fantasmi, vele di bastimenti durante una bufera, minacciose meduse, gonne di dame e regine, baldacchini e tende dietro cui nascondersi, sipari di sontuosi teatri.

Scrivo intorno alla città una campagna estesa, fatta di oliveti fitti fitti, col tronco scolpito dai secoli, scrivo prati a perdita d'occhio, valli che inaspettatamente si aprono tra i profili duri e i volti di pietra delle colline, scrivo cespugli di rovi che costeggiano torrenti e querce solitarie, scrivo sassi coperti di soffice muschio, scrivo il volo delle taccole e i tuffi dei falchi nell'erba alta, la marcia dei porcospini e la corsa solitaria della volpe al crepuscolo.

Di tutto questo lui ancora non sa. Ma una volta scritta, la campagna continuerà ad essere, lontana dal suo vivere. Imperterrita nel suo ciclo, ogni anno fiorirà e si spegnerà senza che lui sappia.
L'erba si seccherà ogni estate, sulla terra indurita e polverosa. Riprenderà a
verdeggiare e farsi spazio in autunno. Alta e brillante di pioggia in inverno, preparerà l'esplosione di colori della primavera. Mille volte la lepre scaverà la sua tana, che mille volte verrà sepolta dal fango e dimenticata. Milioni di ragni costruiranno la loro tela tra i cardi e milioni di volte vi si spegnerà l'ultimo agonizzante ronzio di una vespa.
Tutto questo continuerà per molti anni senza che lui sappia. In solitudine.
Molti anni.
Almeno quanti i miei.
Dono alla mia creatura occhi viola e gambe forti. Gli do occhi d'oro e pelle chiara e trasparente. Gli do occhi di terra e denti da lupo.
Gli do ciò che non ho avuto: mani bellissime, ma meno inutili delle mie.
Non gli do voce, perché possa non vivere quel giorno doloroso in cui si renderà conto di quanto Parola sia inutile.

Lo faccio innamorare tre volte.

La prima volta, s'innamora di sua nonna, la piccola vecchia dallo sguardo altero, gli occhi chiari che trapassano muri e persone. I capelli come una trama di fili d'argento impuro, quando giunge in un luogo tutt'intorno è pace. Lui s'innamora di quelle mani, infinite mappe dei sentieri di una vita, corteccia dell'albero della vecchiaia.
S'innamora infine dell'eterea dignità con cui esala l'ultimo respiro.

La seconda volta, s'innamora di una cagna: una bestia col pelo fulvo come un dingo, poco più grande di un gatto. Una di quelle creature che camminano sempre con la coda fra le gambe, acquattate a terra, quasi aspirassero all'invisibilità. Si danno appuntamento vicino alle antiche mura della città: lui le porta un tozzo di pane duro e lei in cambio fa un passo in più nella sua direzione. Lui non sente più le gambe per il troppo stare accovacciato in attesa, il braccio teso verso l'animale. Lei trema e va avanti e indietro mentre lo scruta ad orecchie basse.
Quel giorno d'inverno in cui la bestia gli strappa il boccone dalla mano,il giorno d'inverno in cui improvvisamente il cielo si rischiara, lame di luce fanno del cielo un mosaico, e una sensazione nuova balla nel petto e nella gola di lui.
Mettono a punto un codice : piccoli segnali d'intesa incomprensibili al di fuori del loro cerchio magico. Lui impara qualcosa sul corteggiamento e la seduzione. Su come la conquista sia figlia della delicatezza anziché della forza. Impara quanto un gesto avventato possa distruggere un lungo avvicinamento.
A volte lui l'attende tutta la sera e lei non arriva. E allora lui torna a casa con il peso del crepuscolo sulle sue spalle di adolescente, strascica i piedi verso la notte.
Altre volte lei gli viene subito incontro, appena uditi i suoi passi da umano e il fischio leggero: la coda che si agita veloce sollevando un turbinio di polvere.
Lui non ha mai pensato che Lei fosse il suo cane .
Un pomeriggio infinito l'aspetta invano. Ogni tanto azzarda un fischio. Si mangia le unghie. Si guarda attorno smarrito.
La trova poco più in là, così rigida da sembrare finta : il disegno di un piccolo cane sull' asfalto. Forse tradita dalla fame e da mani simili a quelle del suo amore.

La terza volta s'innamora di una ragazza dalle mani nervose e dalla pelle diafana. E' così bella che nei luoghi in cui lei passa, il tempo si ferma. Quando il cristallo della sua risata tintinna nell'aria, si diffonde una brezza leggera. Quando la terra avverte la carezza dei passi leggeri di lei, trattiene il fiato per un momento.
Con le sue lunghe dita suona strumenti invisibili, traccia complicati disegni nell'aria, ricama incredibili storie.
Un giorno, ad esempio, crea per il ragazzo un enorme castello di ragnatele, completo di torri e ponti levatoi, così leggero da poter viaggiare da una parte all'altra del globo con appena un filo di vento. Un'altra volta gli disegna un'enorme nave pirata con la carena coperta di conchiglie e madrepore, e a prua una bella polena di corallo candido come la pelle di un angelo. Una nave che conosce il brontolio di ogni oceano e che è passata sul dorso di più di un mostro marino.
Poi, durante una notte profumata di gelsomini, traccia con le sue belle e nervose mani l'entrata di un labirinto, vi entra e fa cenno al giovane innamorato di seguirla.
Il labirinto è tortuoso, li inganna riportandoli al punto di partenza, li chiude in vicoli senza uscita, spesso hanno la sensazione di girare in tondo. Talvolta,
inaspettatamente, si apre di fronte a loro una piccola piazza, con un profondo pozzo al centro. Percorrono stradine tra piccole case a un piano, i vasi di fiori allineati fuori dal portone, sotto le finestre. Costeggiano palazzine dalle facciate dipinte d'umido e muffa, i muri scrostati; giardini pensili lasciano ricadere, generosi, il loro tendame di fronde sino a terra. Attraversano archi, girano attorno alla grande chiesa dalla facciata in stile barocco, ascoltano il bisbigliare sommesso dei gargoyles che vegliano sulla loro strada .
Ogni volta che par loro d'intravvedere un “fuori”, la città li trattiene nel suo corpo inventando nuovi viottoli e chiudendone altri.
La città si prende gioco di loro, li spinge verso un oltre che perde consistenza quando vi si dirigono.
La città è il labirinto.
Girano così per ore, millenni, forse anni.

Guardo la mia marionetta, la mia piccola perfetta creatura, perdersi nell'intrico di vie, nel labirinto del suo stesso cuore. Allungare il passo nel tentativo di raggiungere l'ombra del suo amore, cercare una via d'uscita senza rendersi conto che ogni città è solo un'idea, organismo vivente che muta assieme a chi la percorre.
Ora lui è un uomo a tutti gli effetti ed è così bello nella sua fragilità, che decido di calare una mano sulla mia città di carta e con magnanimità aprirgli un varco verso l'esterno.
Ma la prima a uscire è la bella plasmatrice, il suo ultimo amore, che ora canta sogni allegri e corre e danza mentre sciami di falene le volano intorno.
Lui la segue e la insegue, ancora e ancora, teme di perderla sugli asfalti della periferia industriale, in quel fuori che improvvisamente gli si apre come orizzonte sconosciuto.
Si orienta grazie ai disegni che lei lascia sospesi a ondeggiare su metri e metri di guard-rail, come aquiloni. Corre a perdifiato ma già lei è lontana, a volte gli pare di scorgere i suoi ricami di luce fra lo sfrecciare delle macchine.
Vede il profilo di lei un'ultima volta, quando la città è oramai lontana, alle spalle, flebile ricordo nella nebbia del tempo che è stato. E' sdraiata all'orizzonte, su seni e fianchi le crescono boschi, ha gote di roccia granitica e capelli di macchia, la sua fronte si perde fra nubi.
Ora che ha esaurito ogni energia, ora che si è stancato di Amore, ora che il suo passo è incerto, ora che la città l'ha sputato fuori, ora e soltanto ora, regalo al mio uomo d'inchiostro la maestà del silenzio -impareggiabile lusso-, gli insegno il linguaggio del vento. Gli offro la grazia suprema dell'abbandono, l'invulnerabilità della solitudine, l'immortalità dell'oblio. Lo spingo fra l'intrico dei rovi, a venerare il trifoglio come fa la rugiada. Lo metto seduto nel bosco, il sole fra i rami gli tatua il viso, licheni e foglie lo vestono, pelle su pelle, e i bruchi ne fanno l'idolo di una loro religione. Accorda il suo cuore con quello dei conigli selvatici, scarabei gli escono dalle orecchie e la mantide gli rivela il suo più cupo segreto nel baciarlo sulle labbra.
Le capinere fanno il nido fra i suoi capelli , ortiche nascono dal suo petto.
Ha disegnato sul proprio corpo una città di cui ha ricordi lontani: le sue arterie sono le vie, le sue rughe le mura, i suoi peli i giardini.
Non c'è nulla che lo diverta di più dell'inventare personaggi e storie che si muovono e brulicano all'interno della sua città-corpo, prima che venga del tutto coperta dall'edera che lo avvolge, dall'abbraccio del muschio.
Quando lo lascio, cristallizzandone l'immagine, ride ancora, sguaiato, dei propri racconti. Ma la sua risata è stridula come il verso della civetta, ha le inflessioni della voce del torrente ed è lugubre come il vento che s'infila nelle tane, sottoterra.


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