sabato 7 giugno 2014

SEZIONE POESIA


TUTTE LE POESIE PARTECIPANTI AL CONCORSO



















L'aggravante di Luca Mingioni (1° premio)

Ecco, vostro onore,
questo è il mio corpo genitore.
Masticatelo. Lo offro in sacrificio,
per voi.
Sono l’herpes delle vostre labbra
il marcio del cuore,
lacrima tagliente, bestia immonda,
sono l’acido dei reflussi.
Dica, procuratore, quant’è salata la gogna,
della rettitudine qual è il prezzo.

L’esplosione d’anima mai intuita
espansa sottopelle, incarnita, vibra
ed è tutto un fulgore di voci e rintocchi
che il danaro è pozione d’amore
che il coro degli espulsi corrode
che mia figlia l’ho abortita da grande.

Poveri matti, voi
che indicate la cella come supplizio,
voi, vampiri di felicità,
gelide cellule autoimmuni, leoni del nulla.
Tre metri per due è la misura del paradiso
è il perimetro sognato,
sostanza di quiete, silenzio e sapone.
Grazie.
Mia figlia ce l’ho ancora dentro.
Con voi non parlo.

MOTIVAZIONE 
Un linguaggio che è reazione opposta alla semplice, se pur indispensabile, contemplazione.
Versi che agiscono in un rapido mulinello d’ira. Un affresco rosso. Una testa non china. Un monologo teatrale compiuto in poche strofe. Un agire sull’udito con parole secche che ammutoliscono: musica senza perdono, musica che agisce sulle coscienze anestetizzate, schiaffeggiando la cecità dilagante. Poesia di coraggio fuori dal coro, un ritrarsi da quest’ultimo, gracchiante e disumano. L’ultimo verso “Con voi non parlo” è mannaia ma anche stridente domanda di conforto verso una solitudine personale e universale.

 __________
A mio padre ( 2° classificata)

Tu non puoi
più vedere
padre
gli dei
che sull'acqua
tracciano
il cerchio
silenzioso
del tempo.

Nel crepuscolo
della città
talvolta
affiori stupito
dal mare
che ti ha illuso
di vivere.

MOTIVAZIONE

Il testo “A mio padre” appare nel suo disegno come un esile stelo spezzato in due strofe. Quello che convince e sorprende è, nell’economia dei mezzi impiegati, la potenza delle due immagini surreali (una per strofa) con cui l’autore esprime prima la caduta del “padre”, reale e simbolico insieme, dal corso del tempo, poi il suo riaffiorare (nel versicolo che ha il maggior numero di sillabe) là, dove ogni volta realizza la menzogna della vita. L’elemento che promuove il silenzio primordiale, ma anche l’angoscia insensata del destino umano, è l’acqua nelle sue valenze estreme di vita e morte. 
__________

Poesie menzioni d'onore ex  aequo



L'attenuante oggettiva (di Luca Mingioni)

Non una parola.
Porta chiusa a chiave.
Il guscio resta dentro il corpo.
L’acqua precipita, il tepore è alito su vetro.
Musicante grintosa raucedine,
batticuore consunto d’esercizio.
Piano preparato, chitarra distorta,
controcanto imbastito da gola ubriaca.
Nessun cenno.
Carezzevole ritmo d’ossesso
in nostra ombra dipinta.

Vai, figlia mia, non aver paura
canta col culo
che il corpo si rigenera
che il sudore delle cosce prima o poi si ferma
che le tue costole esposte fanno godere
e lascia perdere i maldicenti
che l’invidia loro è smisurata
che noi sorridiamo alla realtà.
Appoggiati a me, guarda le mie mani
osserva il movimento
impara
e non parlare
che se no tutto crolla.
__________

L'attenuante soggettiva (di Luca Mingioni)

Ha sentito il tuo sorriso stridere.
Denti come ferraglia da morsa
poi strappo di labbra dischiuse
come frusta
per l’abbraccio cavernicolo con ciò che ripugna.
E poi tu, e lui,
messi al mondo come sputi sugli scogli
col pietrisco d’asfalto ad accarezzarti le ginocchia
tu, che fai recitare la pelle col calore.

Con tono di mamma piangente
gli ho imposto di pensarti puttana
che la verità è sbagliata, e lei soltanto.

Dal marciapiede al materasso
il percorso, col riflettore sul sangue.
La carne è dettaglio di posa.
Subisco anch’io, con affondo di lama
il tuo sguardo d’acqua, la puzza di pesce
il dolciastro sbuffo di sigaretta
il segno della croce.
Il gelo ai piedi è un richiamo di linfa
come da narici dilatate sbuffi bovini,
precede la chiodatrice
come il muggito di strazio.

Ha sentito la tua pietà sulla schiena
con muta trachea formicolante, poi,
ha spento il cono di luce e dato voce alle nocche.
Ha sentito il mio sorriso stridere
la tua saliva schizzare
e mai ardore fu più cancrenoso, ansimando
sopra il tuo collo spezzato.
__________
C’è un pianto  (di Antonello Spataro)

C’è un pianto nei respiri della notte,
nei gerani umidi
nei sogni.

Un pianto che non è tuo
né mio.
Una nota acuta
emessa dagli alberi
nel  tramonto
e presto dimenticata.

Le sue lacrime sono dure
come pietre e montagne
hanno il colore di una morte imminente
di un giudizio.

Non è tristezza solo di noi due.
Un giovinezza consumata
senza primavera
è invece
questa
una speranza senza domani.

Dolore di case abbattute
di fiori
di cielo
di pensieri senza più mani
di promesse vuote di tempo.

Allora guardo la luna
e più lontano i punti lucenti
come dolci madri ignare
custodi del tempo.

(C’è un sorriso nell’aria
questa notte)
__________
Città Nuova  (di Salvatore Pintore)
Ai piedi del Monte
è fiorita la mia rinascita:
Città Nuova,
grembo d’acqua e pietra,
volto di stirpe plasmata dal tempo,
ha trovato sviluppo e sostegno
coltivando terra e sogni,
in case di calce e di fango,
ferro, vetro e cemento,
tetti di canne e ginepro,
nuvole, stelle e cielo,
cortili aperti al vento della vita in comune
stillando pensieri, versi e discorsi,
laiche preghiere di una Nuova Alleanza.
Affinando gli occhi, le idee,
i giorni donati, anni di guerra e pace,
le note rubate al Silenzio,
tra sguardi precari e disseminati passi,
compagni di viaggio
dentro un infinito orizzonte di luce…
Ma chi ha sete di giustizia e fame di futuro,
lascia il seno materno della fonte,
i nidi, le strade, le piazze,
il battesimo del primo amore,
oltre i confini lancia il suo cuore:
esca di giorni nuovi
ascoltando una Voce…
__________


CARO AMORE (di Giovanni Andrea Negrotti)

Mi allontano dal freddo vetro di questo spaccato
di fine estate,
 il lastricato bagnato di lacrime di cielo
 rispecchiano le cattedrali dell'industria di periferia.
Annuso l'aria che mi fu familiare
I cancelli chiusi di un edificio fatiscente
sembra un remoto cimitero.
Questo un giorno era il mio mondo, il nostro mondo
scusa se tossisco ancora e ho smesso di fumare,
i mie polmoni cancerogeni ormai mi abbandonano.
Caro amore, andando via
non ho chiuso a chiave la porta, sono il solito distratto.
Caro amore, i miei piedi fanno ciak,
sull'asfalto bagnato, ormai cammino da ore.
Caro amore, quando l'alba s'irradierà sulla città,
nessuno si accorgerà che in questo spaccato di fine estate
un uomo è partito, che un povero operaio di una fabbrica non ci sarà più
Caro amore, quando sarò dinnanzi al portone bianco dell'eden
vienimi incontro perché potrei aver paura della morte!
Caro amore, prima che la città si svegli nel suo fragore, io sarò con te.


 SASSARI (di Giovanni Andrea Negrotti)
Sei nata da una fonte giuliva e spensierata,
nelle brutali vicende e torpore hai mantenuta inalterato il buon umore .
Città dormiente eppur di gente brulicante,
il baluardo ha lasciato la sua ombra
e in piazza sventramento è nata una Madonna.
Personaggi illustri nella storia
 dal Re, il Papa e il Presidente, hanno abbracciato la tua gente.
Il tamburo batte a più non posso; annuncia l’Assunzione è Ferragosto.
                                  I grandi ceri scendono la via sino alla grande cupola di Santa Maria.


Capisco! (di Giovanni Andrea Negrotti)
Capisco che quando il silenzio Incombe su qualcosa sa di stantio;
Il silenzio è un problema per una metropoli,
esso non è concesso  neanche al cesso.
Il silenzio è un animale bieco e oscuro
come un felino nella notte colpisce in profondità,
azzanna e ti ritrovi  sanguinante e quasi privo di sensi.
La metropoli ha paura del silenzio,
allora corre frenetica ad ogni ora e minuto
non si ferma, non si stanca,
e se deve pisciare alza l'anca e saltella su un gamba.
Un amico mi ha detto che il silenzio è d'oro....
vaccaaa?!,
Dico... è come l'arancia;
Oro al mattino e piombo la sera,
si la sera, quando torni sbronzo di lavoro
E chiedi permesso anche se sai che sei solo,
Oibò ... solo con il gatto, che miagola, in silenzio.
 Ecco, allora accendi il tv, tanto a quest'ora ci son le comari
che starnazzano Sull'... aiiiia.. ah … che botta... al buio ho beccato la porta.
La infilo … la porta, modello inglese testa di moro che mi dona coi miei jaens.
Scivolo in cucina e suadente conquisto una pasta al dente,
aggranfio la birra al doppio malto e come un matto sul divano salto...
e vorrei che qualcuno mi desse una mano...
a far in modo che qua venga il silenzio!
Perché a me il silenzio non fa paura!!!!!
__________

Ciddai visibili (di Giuseppe Tirotto- Lingua Sarda (Sardo-Corsa)

  
La primma undi soggu intraddu, macarri
senza iscinni mai, cu’ li culori,
l’innuzenti spanti, parui
e disigi, lu matessi impastu di li sònnii.
 
La primma undi mi soggu pessu
pa’ nirvosi camini d’umbri culuraddi
innantu a muri pìrighi, nùmmaru
tra nùmmari isciolti in rii chena
innommu, né un mari undi affugassi.

L’agghju naigadda, spiddriaddu
da bibiristi annuggiaddi, sottu
ragnateli d’isteddi artificiali
appiccaddi a l’azzurru d'azzagghju
trabassaddu di ratti ghjladdi,
vissudda di firmadda in firmadda,
in chiddi chi sfiniani
in mesi chena odori vassa vassa
in anni senza culori, solu cu’ lu tic tac.

Vi furriegghju e no la ricunnòsciu,
puru si artificiali troppi l’isteddi
istudaddi e li surrisi, imbara a lu bugghju
lu cuggiolu di lu me’ eu, a paru a lu soiu,
li cori nostri so in altru loggu, i li
periferii di noi matessi a la cerca
di un centru chi macarri no v’è più. 

 Traduzione


Città visibile
  
La prima dove sono entrato, forse
senza uscirne mai, con i colori,
gli innocenti stupori, paure
e desideri, lo stesso impasto dei sogni.
  
La prima dove mi sono perso
per nervosi sentieri d’ombre colorate
su muri anneriti, numero
tra numeri disciolti in fiumi senza
nome, né un mare dove annegarsi.

L’ho navigata, spiato
da ciglia accigliate, sotto
ragnatele di stelle artificiali
appese all’azzurro d'acciaio
trafitto di rami gelati,
vissuta fermata dopo fermata,
in settimane che sfinivano
in mesi inodori tracimanti
in anni incolori, solo col tic tac.

Ci ritorno e non la riconosco,
seppure artificiali troppe le stelle
spente ed i sorrisi, resta al buio
l’angolo del mio io, anche del suo,
i nostri cuori sono altrove, nelle
periferie di noi stessi alla ricerca
di un centro che forse non c’è più. 
__________

CITTA’ DELL’INFANZIA (di Maria Teresa Cugusi)

Napoli città lontana,
mille volte perduta,
sempre casa d’amore.

Torno ancora, ormai stanca,
al tuo porto incantato,
alle brulicanti colline segnate dall’uomo,
alle tue rovine.

Le antiche botteghe,
neri occhi di fumo,
sono lì sempre uguali
come quando scandivano il tempo
i miei passi bambini.

Mi ritrovo e mi perdo nei vicoli noti,
più stretti di allora.
La mia giovinezza lontana
s’intreccia ancora con le tue fontane,
con la dolcezza indicibile
dei tuoi tramonti.

Poggio la fronte
sul muricciolo di allora,
carezzo la scorza bruna dei tuoi pini
che ondeggiano nel vento
e sorrido.
__________
Dedicato a Franz Kafka (di Mario Lubino)

Ti penso
camminando lungo una strada
guardando il cielo di una notte magnetica
calda notte disseminata di piccole stelle
con la luna che proietta la sua ombra
sulle facciate fatiscenti
di palazzi dormienti.
Ti vedo mentre ti aggiri per le strade
senza bussare ad alcun portone
camminando indisturbato.
Non fai domande
hanno portato via libri quaderni
lettere giornali
e tu sorridi ironicamente
non importa più di tanto
il mondo non si esprime affatto
o si esprime a balbettii.
Non sei lo scrittore del corpo
sei lo scrittore dell’anima
non cogli delizie
non fai dichiarazioni
non emetti  sentenze.

Franz Kafka un cosmo
un figlio della Praga asburgica
disperato
tormentato
in un mondo
privo di ragione e d’amore.
__________

Domenica di luglio in città (di Luisella Pisottu)
 Rondini, gabbiani in lontananza
fringuelli tra i rami del possente alloro.
Quartiere di San Giuseppe,
mattino di campane.
Qualcuno fischia un motivetto.
Una cornacchia
un cuculo
una tortora fra le zolle.
Il sole si alza.
Un cane assonnato e i suoi fantasmi:
abbaia intorpidito.
Un motore.
Un portone.
Improvviso
un battito d’ali in volo.
Festa di Santa Lucia a Sassari ( di Luisella Pisottu)


Un tappeto d’attese il selciato
Sant’Apollinare è quartiere aperto, vivo come ciclamino.
Piccole case, fessure di porte annunciano festa.
Eccolo l’obriere dalle vesti nero bianche.
“Li pizzinni currini” nella piazza che abbraccia la chiesa,
“ ridini” dai giardini dell’infanzia.

Alla messa voci bianche carezzano volti, salgono oltre i pensieri.
La banda accende il silenzio,
nell’aria di dicembre luci sfumate, nasi colano,
un sipario di folla avanza.

Netto – in alto – il profilo della Santa.
__________

È sempr’edda (di Antonello Bazzu)


V’era una vostha Sassari
chi soru a ammintalla,
ancora mi ridi lu cori.
Chissa chi candu farabi
a Piazza, a carasori,
vidì i’ li fundari li casi
bianchi e li monti curo’
di l’aria i’ l’Asinara
e i’ l’osthi e l’aribari
lu rissori giugghendi a mabó
cu’ lu biancori
d’una vera ipastha in asthu mari.
Chissa sì ch’era Sassari!

Veru! Parò… abà puru, s’hai occi a figgiurà,
da li baschoni ischascinaddi
di li casi tarreni ancora in pedi,
fazi l’uccittu un fiori,
una pasthera di basiri e n’èscini,
currendi, dui cabbareddi
ricciurini da sott’a li robi
asciuttendi a lu sori. Zesthu, no
è lu baschu di lu puetu nosthru
e li pizzinni so… facci nieddi!

E cosa vo dì? Lu mondu è ciambaddu,
manc’eu soggu più lu matessi!
No ridèsciu manc’a riggì
l’ammenti chena chi una làgrima
m’infòndia li pibiristhi.

Sassari è sempr’edda…
Anzi mi pari sia mégliu abà!


 TRADUZIONE

È sempre lei


C’era una volta Sassari
che al solo ricordarla,
mi sorride ancora il cuore.
Quella che quando scendevi,
al Corso,[1] al tramonto,
vedevi all’orizzonte le case
bianche e i monti color
cielo dell’Asinara
e negli orti e gli oliveti [2]
il riverbero del sole
giocare a nascondino con il bianco
d’una vela tesa in alto mare.
Quella sì che era Sassari!

Si! Però… anche adesso, se hai occhi per vedere,
dai balconi sgangherati
delle casette che resistono,
fa l’occhietto un fiore,
un vaso di basilico e sbucano,
correndo, due testoline
ricciute da sotto i panni
ad asciugare al sole. Certo non
sono le violacciocche del nostro poeta [3]
e i bambini hanno…  il viso di colore!

E che vuol dire? Il mondo è cambiato,
neanche io sono più lo stesso!
Non reggo neanche
i ricordi senza che una lacrima
mi bagni le ciglia.

Sassari è sempre lei…
Anzi mi pare sia meglio adesso!




[1] I vecchi sassaresi continuano a chiamare Piazza l’attuale Corso Vittorio Emanuele, asse centrale della città murata, anticamente denominata Platha de Codinas.

[2] Dall’alto del Corso Vittorio Emanuele, in discesa verso la campagna e il mare, prima che negli anni cinquanta si costruisse il “tappo” rappresentato dall’ex Hotel Turritana, si poteva godere della vista del verde degli orti e degli oliveti che circondavano la città, giù sino alla pianura e al mare non lontano.

[3] Un fiori di baschu, poesia di Salvator Ruju, alias Agniru Canu, il poeta cantore della vecchia Sassari.

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Il randagio di città (di Andrea Muzzu)


Vivo all'ombra della sera tra i mattoni dei muretti
aspettando che la sorte, mi regali un bel boccone.

Sono bianco, grigio e nero: baffi lunghi e occhi chiari
mangio tutto ciò che viene perchè oramai non caccio più.

Se mi gratti ti lusingo e ti regalo il mio calore
perchè mi piace come un tempo, esser sempre un bel gattone.

Forse un tempo ero fiero: dominavo tutt'intorno!
miagolando a vari toni...mi sentivano lontano.

Vecchio ormai son diventato e anche il pelo si è schiarito,
vivo solo di ricordi delle mie avventure in strada:

mi allontano or da solo, perchè nonostante tutto...
vivo all'ombra di una sera che domani non c'è più.
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Immobilità estatica ( di Rita Pala)

Contenuto da una piaga
giace gelido sul mio petto
limo di sepolture
come velame avvolto
denunciato dalle membra.

Alzo le braccia nelle tenebre
della mia cattedrale di incensi
dove nessuno parla
o mi riempie le orecchie
di verbi opachi.

Poi nell'asfissia del giorno
canto la mia agonia
come un uccello ferito.


Ma lui non ti scolta
e rantola il tempo
sbraita furiosa la bestia
ostaggio della vita.

Come corteccia putrida
ho bisogno di oblio
Con venature gialle di orazioni
spezzo invano la lieve gioia terrena.

Stranita ruoto l'iride verso la tenda gelida
del cielo che frana silvestre, irata.

L'ardua morale cerca riscatto dall'agonia
sputando foglie di parole
in un dialogo materico di sordida lussuria.



Dietro i vetri tra le  ordite febbri
mi raggela la sostanza che nasce
nelle viscere dell'utero.

E apre la strada a un orgasmo
impercettibile, intimamente chiuso.

Materia verde corrode il marmo del giorno
dalla quale penetra un'alba bianca
di fuliggine vergine.


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Fiore ialino (di Rita Pala)

Mai più mi chinai imbelle
sfiorando la sera un fiore ialino

a raccogliere intorno visionario dolente
il singhiozzo dell'ignorante

coltivando tranquilla anestesia.

Sopra nuvole che imbavano arcani rossi
penzola l'imperito cuore gravido e inàne.

Le febbri qui, gettate con forza
tra sterco di mucca o di qualche altra bestia.

Il lamento rende incomprensibile la voce del canto
che improvvido lo avvolge di un improbo strazio.

Nuvole (di Rita Pala)
Passano diafane
 sulla mia fronte solcata
vomitano purezza come nutrimento
sull’onda della terra estiva .
Fuggono incontrando la Luna
Velano il brillante lume delle stelle
Che sgomente riprovano sino alla fine.


In morte di un cane (di Giuliano Comai)

I giorni
vuota merce
fiori senza profumo
mare senza onde.

Mi annusavi scodinzolando
quando rientrando dal lavoro
interrompevo il silenzio
della tua lunga attesa.
Credo mi immaginassi  a capo del tuo branco
cacciatore di prede
nella jungla urbana
né potevo spiegarti  che ogni giorno
barattavo un compenso
in cambio del mio tempo.

Ora che non ci sei
 in lontananza i tram
 graffiano il buio spessore della notte.
Ti immagino in un paradiso
senza leggi fisse
dove le cose non hanno più contorni
dove tutto muta nello stesso istante.
Da lì
invisibile
tu mi fissi ancora
per lo stretto spiraglio
che interrompe il tempo.
__________

ISTIGAS DE MEMORIA* (di Pinuccia Canalis)

Che fantàsima
atraesso sa tzitade
furriolu ‘e sentidos
bantzigados
in trìziles chelos
de ranzolu.
Indebadas
chirco piatas  e carrelas
istigas de memòria.
A lampalughe
m’aferin onzi tantu
pubadas de ammentos
farfaruza ‘e su chi fio….
Sas domos sunt istranzas
e fintzas sas paràulas
tenent limba furistera.
No mi lasses andare feri feri
porrimi sa manu
e ghìami, tzitade….
unu  nuscu,
unu risu, unu faeddu
pro no mi pèrdere
pro no restare solu.

*A sos malàidos de Alzheimer

TRACCE DI MEMORIA*
Come un fantasma
attraverso la città
girandola di sentimenti
cullati
in fragili fili
di ragno.
Invano
cerco  strade e piazze
tracce di memoria.
Baluginanti
mi giungono ogni tanto
conocchie di ricordi
briciole di ciò che sono stato.
Straniere le case
e anche le parole
hanno lingua sconosciuta.
Non lasciarmi  alla deriva
dammi la mano
e guidami, città…..
un profumo,
un sorriso, una parola
per non perdermi
per non restare solo.

*Ai malati di Alzheimer

__________

LA STORIA (di Giovanna Manca)

Contro gli sporchi bolscevichi
tuo nonno puntò con convinzione
il suo moschetto.
Avrebbe preferito
menar le mani sulle sponde d’Africa
invece che crepare
senza gloria
sotto un metro di neve.

La storia è un cielo
di sole due dimensioni
una città improvvisamente deserta
dove il volare fitto
degli storni d’inverno
crea gigantesche forme
a loro ignote.

__________

La strada (di Mario Pinna)

Tace
la strada
deserta

Come me
graffiato
in ogni idea d'amore




Fine (di Mario Pinna)

Un altro angelo è caduto
dall'alto di un palazzo

Niente più ali
a proteggere il suo salto

Lingue sporche gliele han tolte

Angelo
deriso del suo sentire amore

Angelo
privato del dolce planar dei sogni
__________

MAREE (di Carmen Cardia)


Il vecchio dell’ente del turismo
ti porse una conchiglia.
A Saint Malo il mare era scomparso:
ti diede un senso di vertigine il pensiero
che a quel modo d’un tratto la tua anima
si svelasse dai suoi bui fondali.

C’era una musica nell’aria
Che tu sola avvertitivi. Io pensavo
cose senza alcuna importanza
mentre tenendoci per mano
camminavamo in un cieco silenzio.

Da quelle parti hanno visto
eserciti possenti
battere con furore la terra
e l’aria scuotere di urla.
Così dicevi
mentre il vento cozzava rami
di tanto in tanto
contro altri rami
e l’acqua si infrangeva metallica
contro le pareti del mondo.
__________

MENTRE IMPERVERSA LA TEMPESTA (di Riccardo Giuseppe Mereu)

Mentre imperversa la tempesta, Cagliari
si scioglie in pianto … a Cagliari non piove
ormai da ore, ma quel lampo improvviso
che illumina la notte svela, immane,
una voragine che stupra il cielo
nero, un indicibile orco che vomita
distruzione e morte altrove, su questa
tormentata e dolente terra sarda.
Cagliari dalle bianche sentinelle
di pietra, Cagliari protesa al mare,
Cagliari superba si volta indietro
e assiste alla disastrosa alluvione
nell’impotenza senza soluzione.
Piange, in silenzio, preghiere di mare
per asciugare il dolore di chi, oggi,
rischia la speranza o perde la vita
tradita da un cielo ignoto, straniero.
Paralizzato mi trovo nel cuore
della Città del Sole. L’emozione
ha estratto la sua anima sotto secoli
di pietre, nascosta lì per curare
vecchie ferite ancora sanguinanti:
settant’anni fa fu la distruzione
totale. Ora, risvegliatosi acuto
il dolore, dalle cisterne punico
romane si riversano, copiosi,
fiumi di lacrime giù per le strade
e arano un deserto sgomento: semi,
a germogliare un futuro d’amore.
__________

Parigi (di Giuseppina Zaru)

Ti interrogavi
se da lì a un millennio
nel silenzio delle parole
le nostre coscienze
avrebbero avuto
qualche probabilità
ancora
di parlarsi.

Eravamo a Parigi
rari transfughi
nel gelo tremebondo di un inverno
di cui tutt’oggi
si serba la memoria.
__________
Preghiera di un palazzo abbandonato- (SASSARI) (di Filippo Maria D’Angelo)


Faccio la guardia a chi non vuol essere rapito
seppur senza sporcare ancora le mie mani,
guardo la strada di ieri, oggi e domani.
Occupo aria e occupo cielo, senza invito.

Lontani da me, parenti d’osservare,
nei vostri specchi d’acciaio insigniti
non sentirete mai l’odore del mio mare.

Vi chiedo solo di non giudicarmi,mai;
non più castello ma ruderi sommersi
vedo; non più giullari, ma operai.

Pregate voi com’io ho già fatto.
Che le formiche alle finestre mie mortali
alzino ancora gli occhi al ciel compatto,
urlando al vento tutti i loro mali.

E se l’Italia è in pietra, veramente,
solo l’eccesso di cemento fa paura
ma quei ragazzi, in piazza, di recente
-gli stessi di ieri, con abiti diversi-
cercano risposte alla loro anima dura.
Chissà cosa direbbero di questi versi.


Io prego il cemento che mi diede vita,
io prego la natura di una parete bianca,
io prego i ragazzi all’ombra, incenerita.
Io sogno la mia ombra, che gli manca.




Per un porto del cielo- (CAGLIARI) (di Filippo Maria D’Angelo)

Fari nel mare riflesso,
un lampione nella mia stanza;
rivive le vite vissute di quelle luci,
ordinate nella loro perfezione instabile.
Vicoli stretti dritti al cuore,
grigie arterie del disordine del vento.
Passaggi quotidiani, involontari e svelti
-da una finestra un passaggio.
Gira la testa un guardiano della città
dall’alto di maioliche divine;
nella penombra del suo trono riposa le ali,
immobile, interrompe il suo respiro
e,
dall’alto,
riposa il mare.




Veste da camera- (ROMA) (di Filippo Maria D’Angelo)

Nere maglie e teste al balcone:
non si arrende il pensionato
al fumo del suo sigaro marrone.
Vince l’uomo sul bagnato
armadio, con le ante spalancate,
in un abbraccio poco umano.
Gocce e gocce nella mano;
caritatevole trova l’estate
dentro la tempesta autunnale.
Il suo male non capisce
chi guarda alla finestra
e sogna; Pasqua o Natale?
Uovo o camino?
Baci e sguardi e risate insieme;
pianti e consigli e rimorsi
imputati all’Inverno.
La mia mente è confusa
nell’incontro di due anziani.
È comune il male mio
a chi guarda da un balcone
-si paga il silenzio dell’amore;
tra persone, uomini.
Pochi o tanti i pensieri
per il mondo oltre quel vetro.
Niente è uguale a ieri.
__________
Presoneris (di Gonario Carta Brocca)


S’abenturiada
dae lepas de tzimentu iscorriolada
arrancat in s’andala ‘e catramu;
unu bisu de luna
chi a gropa aiat batidu
morit allupadu
in carreras de fumu e de nudda:
nudda in sa terra
nudda in su chelu
cuadu dae palattos
bestidos de belludu ‘e titieddu.
In custu logu
ue tottu riden
tottu istiman
tottu disizan
ma nemos bivet a beru
s’anima
unu zardinu est chircande
est chircande s’omine
isticchidu
in sas jannas frisciadas sette ‘ortas.


Prigionieri


La folata
da lame di cemento sfilacciata
annaspa sul percorso di bitume;
un sogno di luna
che in groppa portò
muore soffocato
su strade di fumo e di nulla:
nulla sulla terra
nulla nel cielo
nascosto dai palazzi
con velluto di nerofumo vestiti.
Qui
dove tutti ridono
tutti amano
tutti anelano
ma nessuno davvero vive
l’anima
un giardino sta cercando
sta cercando l’uomo
nascosto
dietro porte sbarrate sette volte.



Bisos de tzittade (di Gonario Carta Brocca)


Dae sa ‘iddighedda mia troppu minore
unu sonniu apo attidu a sa tzittade.
In d-un’ungrone s’est ingalenadu
de custu logu ‘e intumbos e solòtzos
de macchinas fumigosas
d’animas chi no an tempus de un’allega
de boidores chi isturdin
de lughes chi pertunghen
de trumuzones chi no iscapan prus.

Un’alinu de ‘eranu
colande lestru peri sas vitturas
chin dilichia
duos frores arestes at basadu
e sa janna ‘e sa vida
a sa vida s’iscantzat
faghende ispossiare bisos noos
in su coro ‘e sa zente
istranza in domo sua
s’unu dae s’atteru iscropaos
dae barandillas d’astraore
d’egoismu
de ruinas d’animas
chi nos cuan
su colore caente ‘e su manzanu.




Sogni di città


Dal mio paesello troppo piccolo
un sogno ho portato in città.
S’è assopito in un cantuccio
di questo luogo di echi e di frastuoni
di caliginose macchine
d’anime senza tempo per un saluto
di vuotaggini che frastornano
di luci che trapassano
di vortici che più non ci mollano.

Un refolo di primavera
zigzagando fra le automobili
dolcemente
due fiori selvatici baciò
e la porta della vita
alla vita si schiuse
facendo sbocciare nuove brame
nel cuore della gente
straniera in casa propria
gli uni dagli altri separati
da barriere di gelo
di egoismo
di rovine d’anime
che ci occultano
il caldo colore del mattino.



Labirintu (di Gonario Carta Brocca)


A passu lentu
in s’orulu ‘e sa ‘ia
tocau
saludau
iscoidalau
solu solu m’intendo
che foza dae su ‘entu trisinada
in custa currentina
d’animas ausentes
e miradas
chi tottu pompian
chene ‘ider nudda.

Sos isteddos de su chelu
bortados in lampiones
lagrimas de lughe pianghen.
Che apicau
pendet su sero
dae sos arvores mutzurros
chi mancu a sos puzones
dan ospedu.

In custu labirintu
de ‘ias chene cumentzu e torradorzu
su coro
de donnia sonu sighit sa marea
chircande una paraula
unu pessu
chi in sa chirca ‘e Deu nos azuet
innantis chi sa lughe ‘e su manzanu
sorvat sa fide nostra.



Labirinto


Avanzando pigramente
sull’orlo della via
toccato
salutato
sgomitato
mi sento molto solo
come una foglia trascinata dal vento
in questo fluire
d’anime in trance
e sguardi
che tutto osservano
senza nulla percepire.

Le stelle della volta celeste
tramutate in lampioni
lacrime di luce piangono.
Come impiccata
pende la sera
dagli alberi monchi
che neppure agli uccelli
danno alloggio.

In questo labirinto
di vie senza un inizio ed una fine
il cuore
d’ogni rumore segue la marea
cercando una parola
un pensiero
che nella ricerca di Dio ci aiuti
prima che la luce del mattino
la nostra fede faccia evaporare.

__________

QUANDO IL VENTO (di Mario Graziano Ruiu)



Quando il vento gelido del settentrione
spazzerà le brume
il sole inonderà la città.
Allora ti aspetterò.

I giorni intanto trascorrono vuoti.
Per i viali passeggiano
nell’indifferenza degli altri
le ombre della gente.

Tutto quello che desidero è stringere la tua mano
percepirne il calore
nel traffico che graffia il silenzio
di queste sere d’inverno.

I giorni intanto trascorrono vuoti.
La foschia ora copre la città
che come un lontano ricordo
lentamente svanisce.
__________

SILENZI (di Elias Pintore)


Quattro saltimbanchi ungheresi
snocciolarono senza ispirazione
il loro repertorio.
Tu lasciasti cadere una monetina nella ciottola
dicesti che il più magro
ricordava il personaggio di un quadro di Chagall.

Avremmo dovuto parlare
di noi due quella sera.
Oggi ricordo solo qualche sospiro
il profilo del tuo volto
le nuvole di fumo che si levavano
dal finestrino della cinquecento.

Ci avvolgeva
la gelida  luminescenza della città
mentre ignari
fiutavamo il silenzio
delle nostre coscienze.
__________

SULLO SFONDO (di Stefano Demartis)

Resto ancora lì,
ancora un secondo.
Poche case, pochi colori
sullo sfondo.
La sensazione di non essere
mai andato via.
Vedo una casa
la mia
senza coraggio
per dirle addio.
__________

TI GUARDO (di Monica Pulina)

Ti guardo
vai via.

L’aria della città
è pregna
del tuo profumo.
Lo spazio invaso
dalla tua presenza.
Il mio cuore
scoppia d’amore.

Non ti vedo
offuscata dai miei pensieri.
Ed è
l’unico istante
in cui posso fermarti.
__________

UNA METAFISICA DELLA CITTÀ (di Andrea Pirellas)

La città in se,
res cogitans o res extensa?
I corpi che la popolano, le anime che la popolano.
È piuttosto la proiezione dell’esistenza umana sul pianeta Terra:
tra relazioni e possibilità nella frenesia.
Tutti ad inseguire la felicità,
sia maledetta la frenesia della città
sia maledetta la ricerca della felicità.

Dall’alto la città è un punto

perso nell’infinità spazio temporale.

Soli e fragili noi

tra le cose materiali

nell’universo delle idee.


 UN’ETICA DELLA CITTÀ (di Andrea Pirellas)

Nella città,
ognuno che pensa a se stesso.
Nella frenesia,
la mancanza di tempo
l’incapacità di stupirsi.
Egoismo tanto, ma c’è un barlume di altruismo.
Diamo ossigeno alla fiammella del rispetto,
le relazioni sono tutto quel che abbiamo!
La città è tutto quel che abbiamo!
Muri imbrattati, strade sporche: tristezza.
Il vivere civile armonioso
è il bene prezioso da perseguire:
una pepita che
se i cittadini scavano
si troverà.


UN’ESTETICA DELLA CITTÀ (di Andrea Pirellas)
 Passeggi,
osservi la città
si accende il cervello.
L’architettura della cattedrale, la sua monumentalità
i balconi con rose ortensie ciclamini, trionfo cromatico
le piazze con la gente in fermento, ben vestita.
In centro la statua dell’orgoglio cittadino
ma tu hai il tuo idolo e la cambieresti.
Ti immagini delle aggiunte a quanto già c’è.
Se fossi sindaco faresti più mostre
se fossi sindaco creeresti più parchi.
Lavori di fantasia: geometria ed aritmetica.
Al tempo stesso ti sorprendi di quello che vedi ogni giorno
sotto luce e punti di vista diversi.
Ed in fondo ti convinci che la tua città è bella
così com’è.
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NELLA MIA CITTA’(di Natalina Foddai)


Nella mia citta'
c'e' la mia cantina
dove un buon vino
sa di sogni e sudore.
Un bicchiere  troppo sporco
muore nel fondo del legno
e le mie mani
assaggiano i nodi dell' uva.
Tutto giunge a maturazione,
a solitudine,
solo quella che una citta'
Puo' dare.

__________

Venezia 1989 ( di Maria Vittoria Piga)

Venezia è immergersi in un dolce sogno e sognare
come in sogno essa è apparsa
città di grigi, di nebbia, di brume.

La luce su calli e campielli, su rughe e ponti
sbianca a tratti spazi che non si vedono
perché avvolti dal grigio invernale e dalla malinconia dell’acqua.

Città di fantasmi e di finestre sbarrate, di ricordi e pietre mute.

Il profondo silenzio, interrotto dai nostri passi
che riecheggiano sul selciato grigio,
il profumo bagnato delle sue case.

Incantati dal dolce scorrere sull’acqua della gondola nera
il suo taciturno nocchiero scivola lungo il canale
come su tappeti d’acqua.

Sotto lo sguardo di cento finestre
ci immergiamo nei suoi vicoli stretti e bui
alla ricerca di labirinti di marmo.
Un intrico di vicoli d’acqua talmente stretti fra loro
da pensare a una prigione di cristallo.

Ecco all’interno delle sue pietre…

Una luce straordinaria, una luce di polvere d’oro.
Le volte delle chiese sembrano rincorrersi sotto le cupole sontuose
in un girotondo di statue mute.

Raffinate bomboniere i suoi caffè,
preziose maschere, velluti sfavillanti, merletti, veli luccicanti…
è la Venezia delle feste, del carnevale, della gioiosa trasgressione.

Il rintocco delle campane di San Zaccaria
il sordo fischiare del vaporetto svegliava al mattino
il sonno tranquillo dei nostri corpi.

Immersi in un pigro torpore
Sentivamo il fascino del suo profondo languore.

La corsa del tempo si fermava e…
la nebbia rallentava i nostri pensieri e i nostri passi.


Sassari ( di Maria Vittoria Piga)

 

Che dire di te mia città?

Città strana
fatta di umori e di suoni
gioiosa e malinconica
cinica e generosa
genuina e viva nella lingua della sua gente

Slarghi irregolari
scorci caratteristici
e scenografici cortili si aprono
come per incanto
in teatri all’aperto.

Nel tripudio dolce della sera
rondini sfrecciano festose
in cielo azzurro
il loro canto uniscono
a voci spensierate di bimbi
e chiacchierii di comari.

  
La città del sogno ( di Maria Vittoria Piga)


La nostra via fu quella che in altra vita
noi percorremmo
sfiorando con i nostri passi
i consunti gradini.

In realtà fu un sogno
il nostro peregrinare per vicoli oscuri
di città straniere, traditi da miagolii di gatti.

Seguimmo come viandanti
fiabe quotidiane
in case di sabbia ad altri sconosciute.

In un triste girotondo
il labirinto del sogno
quella sera cercavi.

Cantasti la tristezza del silenzio
mentre voci sommesse
coglievano il disperato pianto della fonte.

Acqua spargesti nel fuoco del mio cuore,
nella nebbia brandelli trovasti
e canti prigionieri in rovi appassiti.

La nostra via
era quella del vento,
giorno dopo giorno
ora dopo ora
lastricando il viale
con parole solo a noi conosciute.

I sospiri cercavano
l’illusione del sole…
svaniva la paura della notte
con l’inganno della sera.
 __________

VENEZIA (di Maria Grazia Angius)


Sopra Venezia c’è un cielo giallo
così dicevi guardando lontano
dove Murano si perde nel nulla
e strane stelle sputa la laguna.
  
Brividi d’acqua di putrefatti sogni
i tuoi giorni mai conclusi
in un carnevale che non ha fine
di corpi affamati di altri corpi.

Sopra Venezia adesso c’è la notte
profumo denso di un mare senza onde
il tuo respiro che si è fatto sereno
il tuo amore eterno e già finito.
  
Sora San Marco volano le rondini
forse le stesse di mille anni fa
vorrei baciarti con grande dolcezza
città perduta mia voluttuosa donna.

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