TUTTE LE POESIE PARTECIPANTI AL CONCORSO
L'aggravante di Luca Mingioni (1° premio)
Ecco, vostro onore,
questo è il mio corpo
genitore.
Masticatelo. Lo offro
in sacrificio,
per voi.
Sono l’herpes delle
vostre labbra
il marcio del cuore,
lacrima tagliente,
bestia immonda,
sono l’acido dei
reflussi.
Dica, procuratore,
quant’è salata la gogna,
della rettitudine
qual è il prezzo.
L’esplosione d’anima
mai intuita
espansa sottopelle,
incarnita, vibra
ed è tutto un fulgore
di voci e rintocchi
che il danaro è
pozione d’amore
che il coro degli
espulsi corrode
che mia figlia l’ho
abortita da grande.
Poveri matti, voi
che indicate la cella
come supplizio,
voi, vampiri di
felicità,
gelide cellule
autoimmuni, leoni del nulla.
Tre metri per due è
la misura del paradiso
è il perimetro
sognato,
sostanza di quiete, silenzio
e sapone.
Grazie.
Mia figlia ce l’ho
ancora dentro.
Con voi non parlo.
MOTIVAZIONE
Un linguaggio che è reazione opposta
alla semplice, se pur indispensabile, contemplazione.
Versi che agiscono in un rapido
mulinello d’ira. Un affresco rosso. Una testa non china. Un monologo teatrale
compiuto in poche strofe. Un agire sull’udito con parole secche che
ammutoliscono: musica senza perdono, musica che agisce sulle coscienze
anestetizzate, schiaffeggiando la cecità dilagante. Poesia di coraggio fuori
dal coro, un ritrarsi da quest’ultimo, gracchiante e disumano. L’ultimo verso
“Con voi non parlo” è mannaia ma anche stridente domanda di conforto verso una
solitudine personale e universale.
__________
A mio padre ( 2° classificata)
Tu non
puoi
più
vedere
padre
gli dei
che sull'acqua
tracciano
il
cerchio
silenzioso
del
tempo.
Nel
crepuscolo
della
città
talvolta
affiori
stupito
dal mare
che ti
ha illuso
di
vivere.
MOTIVAZIONE
Il testo “A mio padre” appare nel suo disegno come un esile
stelo spezzato in due strofe. Quello che convince e sorprende è, nell’economia
dei mezzi impiegati, la potenza delle due immagini surreali (una per strofa)
con cui l’autore esprime prima la caduta del “padre”, reale e simbolico
insieme, dal corso del tempo, poi il suo riaffiorare (nel versicolo che ha il
maggior numero di sillabe) là, dove ogni volta realizza la menzogna della vita.
L’elemento che promuove il silenzio primordiale, ma anche l’angoscia insensata
del destino umano, è l’acqua nelle sue valenze estreme di vita e morte.
__________
Poesie menzioni d'onore ex aequo
L'attenuante oggettiva (di Luca Mingioni)
Non una parola.
Porta chiusa a
chiave.
Il guscio resta
dentro il corpo.
L’acqua precipita, il
tepore è alito su vetro.
Musicante grintosa
raucedine,
batticuore consunto
d’esercizio.
Piano preparato,
chitarra distorta,
controcanto imbastito
da gola ubriaca.
Nessun cenno.
Carezzevole ritmo
d’ossesso
in nostra ombra
dipinta.
Vai, figlia mia, non
aver paura
canta col culo
che il corpo si
rigenera
che il sudore delle
cosce prima o poi si ferma
che le tue costole
esposte fanno godere
e lascia perdere i
maldicenti
che l’invidia loro è
smisurata
che noi sorridiamo
alla realtà.
Appoggiati a me,
guarda le mie mani
osserva il movimento
impara
e non parlare
che se no tutto
crolla.
__________
L'attenuante soggettiva (di Luca Mingioni)
Ha sentito il tuo
sorriso stridere.
Denti come ferraglia
da morsa
poi strappo di labbra
dischiuse
come frusta
per l’abbraccio
cavernicolo con ciò che ripugna.
E poi tu, e lui,
messi al mondo come
sputi sugli scogli
col pietrisco
d’asfalto ad accarezzarti le ginocchia
tu, che fai recitare
la pelle col calore.
Con tono di mamma
piangente
gli ho imposto di
pensarti puttana
che la verità è
sbagliata, e lei soltanto.
Dal marciapiede al
materasso
il percorso, col
riflettore sul sangue.
La carne è dettaglio
di posa.
Subisco anch’io, con
affondo di lama
il tuo sguardo
d’acqua, la puzza di pesce
il dolciastro sbuffo
di sigaretta
il segno della croce.
Il gelo ai piedi è un
richiamo di linfa
come da narici dilatate
sbuffi bovini,
precede la
chiodatrice
come il muggito di
strazio.
Ha sentito la tua
pietà sulla schiena
con muta trachea formicolante,
poi,
ha spento il cono di
luce e dato voce alle nocche.
Ha sentito il mio
sorriso stridere
la tua saliva schizzare
e mai ardore fu più
cancrenoso, ansimando
sopra il tuo collo
spezzato.
__________
C’è un pianto (di Antonello
Spataro)
C’è un pianto nei respiri della notte,
nei gerani umidi
nei sogni.
Un pianto che non è tuo
né mio.
Una nota acuta
emessa dagli alberi
nel tramonto
e presto dimenticata.
Le sue lacrime sono dure
come pietre e montagne
hanno il colore di una morte imminente
di un giudizio.
Non è tristezza solo di noi due.
Un giovinezza consumata
senza primavera
è invece
questa
una speranza senza domani.
Dolore di case abbattute
di fiori
di cielo
di pensieri senza più mani
di promesse vuote di tempo.
Allora guardo la luna
e più lontano i punti lucenti
come dolci madri ignare
custodi del tempo.
(C’è un sorriso nell’aria
questa notte)
__________
Città Nuova (di
Salvatore Pintore)
Ai piedi del Monte
è fiorita la mia rinascita:
Città Nuova,
grembo d’acqua e pietra,
volto di stirpe plasmata dal tempo,
ha trovato sviluppo e sostegno
coltivando terra e sogni,
in case di calce e di fango,
ferro, vetro e cemento,
tetti di canne e ginepro,
nuvole, stelle e cielo,
cortili aperti al vento della vita in comune
stillando pensieri, versi e discorsi,
laiche preghiere di una Nuova Alleanza.
Affinando gli occhi, le idee,
i giorni donati, anni di guerra e pace,
le note rubate al Silenzio,
tra sguardi precari e disseminati passi,
compagni di viaggio
dentro un infinito orizzonte di luce…
Ma chi ha sete di giustizia e fame di futuro,
lascia il seno materno della fonte,
i nidi, le strade, le piazze,
il battesimo del primo amore,
oltre i confini lancia il suo cuore:
esca di giorni nuovi
ascoltando una Voce…
__________
CARO AMORE (di Giovanni Andrea Negrotti)
Mi
allontano dal freddo vetro di questo spaccato
di
fine estate,
il lastricato bagnato di lacrime di cielo
rispecchiano le cattedrali dell'industria di
periferia.
Annuso
l'aria che mi fu familiare
I
cancelli chiusi di un edificio fatiscente
sembra
un remoto cimitero.
Questo
un giorno era il mio mondo, il nostro mondo
scusa
se tossisco ancora e ho smesso di fumare,
i
mie polmoni cancerogeni ormai mi abbandonano.
Caro
amore, andando via
non
ho chiuso a chiave la porta, sono il solito distratto.
Caro
amore, i miei piedi fanno ciak,
sull'asfalto
bagnato, ormai cammino da ore.
Caro
amore, quando l'alba s'irradierà sulla città,
nessuno
si accorgerà che in questo spaccato di fine estate
un
uomo è partito, che un povero operaio di una fabbrica non ci sarà più
Caro
amore, quando sarò dinnanzi al portone bianco dell'eden
vienimi
incontro perché potrei aver paura della morte!
Caro
amore, prima che la città si svegli nel suo fragore, io sarò con te.
Sei
nata da una fonte giuliva e spensierata,
nelle
brutali vicende e torpore hai mantenuta inalterato il buon umore .
Città
dormiente eppur di gente brulicante,
il
baluardo ha lasciato la sua ombra
e in
piazza sventramento è nata una Madonna.
Personaggi
illustri nella storia
dal Re, il Papa e il Presidente, hanno
abbracciato la tua gente.
Il
tamburo batte a più non posso; annuncia l’Assunzione è Ferragosto.
I
grandi ceri scendono la via sino alla grande cupola di Santa Maria.
Capisco! (di Giovanni Andrea Negrotti)
Capisco
che quando il silenzio Incombe su qualcosa sa di stantio;
Il
silenzio è un problema per una metropoli,
esso
non è concesso neanche al cesso.
Il
silenzio è un animale bieco e oscuro
come
un felino nella notte colpisce in profondità,
azzanna
e ti ritrovi sanguinante e quasi privo
di sensi.
La
metropoli ha paura del silenzio,
allora
corre frenetica ad ogni ora e minuto
non
si ferma, non si stanca,
e
se deve pisciare alza l'anca e saltella su un gamba.
Un
amico mi ha detto che il silenzio è d'oro....
vaccaaa?!,
Dico...
è come l'arancia;
Oro
al mattino e piombo la sera,
si
la sera, quando torni sbronzo di lavoro
E
chiedi permesso anche se sai che sei solo,
Oibò
... solo con il gatto, che miagola, in silenzio.
Ecco, allora accendi il tv, tanto a quest'ora
ci son le comari
che
starnazzano Sull'... aiiiia.. ah … che botta... al buio ho beccato la porta.
La
infilo … la porta, modello inglese testa di moro che mi dona coi miei jaens.
Scivolo
in cucina e suadente conquisto una pasta al dente,
aggranfio
la birra al doppio malto e come un matto sul divano salto...
e
vorrei che qualcuno mi desse una mano...
a
far in modo che qua venga il silenzio!
Perché
a me il silenzio non fa paura!!!!!
__________
Ciddai visibili (di Giuseppe Tirotto- Lingua Sarda (Sardo-Corsa)
La primma undi soggu
intraddu, macarri
senza iscinni mai,
cu’ li culori,
l’innuzenti spanti,
parui
e disigi, lu matessi
impastu di li sònnii.
La primma undi mi
soggu pessu
pa’ nirvosi camini
d’umbri culuraddi
innantu a muri pìrighi,
nùmmaru
tra nùmmari isciolti
in rii chena
innommu, né un mari undi
affugassi.
L’agghju naigadda, spiddriaddu
da bibiristi
annuggiaddi, sottu
ragnateli d’isteddi
artificiali
appiccaddi a l’azzurru
d'azzagghju
trabassaddu di ratti
ghjladdi,
vissudda di firmadda in
firmadda,
in chiddi chi
sfiniani
in mesi chena odori vassa
vassa
in anni senza culori,
solu cu’ lu tic tac.
Vi furriegghju e no
la ricunnòsciu,
puru si artificiali
troppi l’isteddi
istudaddi e li surrisi,
imbara a lu bugghju
lu cuggiolu di lu me’ eu, a paru a lu soiu,
li cori nostri so in
altru loggu, i li
periferii di noi matessi
a la cerca
di un centru chi
macarri no v’è più.
Traduzione
Città visibile
La prima dove sono
entrato, forse
senza uscirne mai,
con i colori,
gli innocenti stupori,
paure
e desideri, lo stesso
impasto dei sogni.
La prima dove mi sono
perso
per nervosi sentieri
d’ombre colorate
su muri anneriti,
numero
tra numeri disciolti
in fiumi senza
nome, né un mare dove
annegarsi.
L’ho navigata, spiato
da ciglia accigliate,
sotto
ragnatele di stelle
artificiali
appese all’azzurro d'acciaio
trafitto di rami
gelati,
vissuta fermata dopo
fermata,
in settimane che
sfinivano
in mesi inodori
tracimanti
in anni incolori, solo
col tic tac.
Ci ritorno e non la
riconosco,
seppure artificiali
troppe le stelle
spente ed i sorrisi,
resta al buio
l’angolo del mio io,
anche del suo,
i nostri cuori sono
altrove, nelle
periferie di noi
stessi alla ricerca
di un centro che
forse non c’è più.
__________
CITTA’ DELL’INFANZIA (di Maria Teresa Cugusi)
Napoli città lontana,
mille volte perduta,
sempre casa d’amore.
Torno ancora, ormai stanca,
al tuo porto incantato,
alle brulicanti colline segnate
dall’uomo,
alle tue rovine.
Le antiche botteghe,
neri occhi di fumo,
sono lì sempre uguali
come quando scandivano il tempo
i miei passi bambini.
Mi ritrovo e mi perdo nei vicoli
noti,
più stretti di allora.
La mia giovinezza lontana
s’intreccia ancora con le tue
fontane,
con la dolcezza indicibile
dei tuoi tramonti.
Poggio la fronte
sul muricciolo di allora,
carezzo la scorza bruna dei tuoi pini
che ondeggiano nel vento
e sorrido.
__________
Dedicato a Franz
Kafka (di Mario Lubino)
Ti penso
camminando
lungo una strada
guardando il
cielo di una notte magnetica
calda notte
disseminata di piccole stelle
con la luna
che proietta la sua ombra
sulle
facciate fatiscenti
di palazzi
dormienti.
Ti vedo
mentre ti aggiri per le strade
senza
bussare ad alcun portone
camminando
indisturbato.
Non fai
domande
hanno
portato via libri quaderni
lettere
giornali
e tu sorridi
ironicamente
non importa
più di tanto
il mondo non
si esprime affatto
o si esprime
a balbettii.
Non sei lo
scrittore del corpo
sei lo
scrittore dell’anima
non cogli
delizie
non fai
dichiarazioni
non
emetti sentenze.
Franz Kafka
un cosmo
un figlio
della Praga asburgica
disperato
tormentato
in un mondo
privo di
ragione e d’amore.
__________
Domenica
di luglio in città (di Luisella Pisottu)
Rondini, gabbiani in lontananza
fringuelli tra i rami del
possente alloro.
Quartiere di San Giuseppe,
mattino di campane.
Qualcuno fischia un motivetto.
Una cornacchia
un cuculo
una tortora fra le zolle.
Il sole si alza.
Un cane assonnato e i suoi
fantasmi:
abbaia intorpidito.
Un motore.
Un portone.
Improvviso
un battito d’ali in volo.
Festa di Santa Lucia a
Sassari ( di Luisella Pisottu)
Un tappeto d’attese il selciato
Sant’Apollinare è quartiere aperto, vivo come ciclamino.
Piccole case, fessure di porte annunciano festa.
Eccolo l’obriere dalle vesti nero bianche.
“Li pizzinni currini” nella piazza che abbraccia la chiesa,
“ ridini” dai giardini dell’infanzia.
Alla messa voci bianche carezzano volti, salgono oltre i pensieri.
La banda accende il silenzio,
nell’aria di dicembre luci sfumate, nasi colano,
un sipario di folla avanza.
Netto – in alto – il profilo della Santa.
__________
È
sempr’edda (di Antonello Bazzu)
V’era
una vostha Sassari
chi
soru a ammintalla,
ancora
mi ridi lu cori.
Chissa
chi candu farabi
a
Piazza, a carasori,
vidì
i’ li fundari li casi
bianchi
e li monti curo’
di
l’aria i’ l’Asinara
e
i’ l’osthi e l’aribari
lu
rissori giugghendi a mabó
cu’
lu biancori
d’una
vera ipastha in asthu mari.
Chissa
sì ch’era Sassari!
Veru!
Parò… abà puru, s’hai occi a figgiurà,
da
li baschoni ischascinaddi
di
li casi tarreni ancora in pedi,
fazi
l’uccittu un fiori,
una
pasthera di basiri e n’èscini,
currendi,
dui cabbareddi
ricciurini
da sott’a li robi
asciuttendi
a lu sori. Zesthu, no
è
lu baschu di lu puetu nosthru
e
li pizzinni so… facci nieddi!
E
cosa vo dì? Lu mondu è ciambaddu,
manc’eu
soggu più lu matessi!
No
ridèsciu manc’a riggì
l’ammenti
chena chi una làgrima
m’infòndia
li pibiristhi.
Sassari
è sempr’edda…
Anzi
mi pari sia mégliu abà!
TRADUZIONE
È sempre lei
C’era una volta Sassari
che al solo ricordarla,
mi sorride ancora il cuore.
Quella che quando scendevi,
vedevi all’orizzonte le case
bianche e i monti color
cielo dell’Asinara
il riverbero del sole
giocare a nascondino con il bianco
d’una vela tesa in alto mare.
Quella sì che era Sassari!
Si! Però… anche adesso, se hai occhi
per vedere,
dai balconi sgangherati
delle casette che resistono,
fa l’occhietto un fiore,
un vaso di basilico e sbucano,
correndo, due testoline
ricciute da sotto i panni
ad asciugare al sole. Certo non
e i bambini hanno… il viso di colore!
E che vuol dire? Il mondo è cambiato,
neanche io sono più lo stesso!
Non reggo neanche
i ricordi senza che una lacrima
mi bagni le ciglia.
Sassari è sempre lei…
Anzi mi pare sia meglio adesso!
[1]
I vecchi sassaresi continuano a chiamare Piazza l’attuale Corso
Vittorio Emanuele, asse centrale della città murata, anticamente
denominata Platha de Codinas.
[2]
Dall’alto del Corso Vittorio Emanuele, in discesa
verso la campagna e il mare, prima che negli anni cinquanta si costruisse il “tappo”
rappresentato dall’ex Hotel Turritana, si poteva godere della vista del verde degli
orti e degli oliveti che circondavano la città, giù sino alla pianura e al mare
non lontano.
[3]
Un fiori di
baschu, poesia di Salvator Ruju, alias
Agniru Canu, il poeta cantore della
vecchia Sassari.
__________
Il randagio di città (di Andrea Muzzu)
Vivo all'ombra della sera tra i mattoni dei muretti
aspettando che la sorte, mi regali un bel boccone.
Sono bianco, grigio e nero: baffi lunghi e occhi
chiari
mangio tutto ciò che viene perchè oramai non caccio
più.
Se mi gratti ti lusingo e ti regalo il mio calore
perchè mi piace come un tempo, esser sempre un bel
gattone.
Forse un tempo ero fiero: dominavo tutt'intorno!
miagolando a vari toni...mi sentivano lontano.
Vecchio ormai son diventato e anche il pelo si è
schiarito,
vivo solo di ricordi delle mie avventure in strada:
mi allontano or da solo, perchè nonostante tutto...
vivo all'ombra di una sera che domani non c'è più.
___________
Immobilità
estatica ( di Rita Pala)
Contenuto da una piaga
giace gelido sul mio petto
limo di sepolture
come velame avvolto
denunciato dalle membra.
Alzo le braccia nelle tenebre
della mia cattedrale di incensi
dove nessuno parla
o mi riempie le orecchie
di verbi opachi.
Poi nell'asfissia del giorno
canto la mia agonia
come un uccello ferito.
Ma lui non ti scolta
e rantola il tempo
sbraita furiosa la bestia
ostaggio della vita.
Come corteccia putrida
ho bisogno di oblio
Con venature gialle di orazioni
spezzo invano la lieve gioia terrena.
Stranita ruoto l'iride verso la tenda gelida
del cielo che frana silvestre, irata.
L'ardua morale cerca riscatto dall'agonia
sputando foglie di parole
in un dialogo materico di sordida lussuria.
Dietro i vetri tra le
ordite febbri
mi raggela la sostanza che nasce
nelle viscere dell'utero.
E apre la strada a un orgasmo
impercettibile, intimamente chiuso.
Materia verde corrode il marmo del giorno
dalla quale penetra un'alba bianca
di fuliggine vergine.
______________________
Fiore ialino (di Rita Pala)
Mai più mi chinai imbelle
sfiorando la sera un fiore ialino
a raccogliere intorno visionario dolente
il singhiozzo dell'ignorante
coltivando tranquilla anestesia.
Sopra nuvole che imbavano arcani rossi
penzola l'imperito cuore gravido e inàne.
Le febbri qui, gettate con forza
tra sterco di mucca o di qualche altra bestia.
Il lamento rende incomprensibile la voce del canto
che improvvido lo avvolge di un improbo strazio.
Nuvole (di Rita Pala)
Passano diafane
sulla mia fronte solcata
vomitano purezza
come nutrimento
sull’onda della
terra estiva .
Fuggono
incontrando la Luna
Velano il
brillante lume delle stelle
Che sgomente
riprovano sino alla fine.
In morte di un cane (di Giuliano Comai)
I giorni
vuota merce
fiori senza
profumo
mare senza
onde.
Mi annusavi scodinzolando
quando
rientrando dal lavoro
interrompevo
il silenzio
della tua
lunga attesa.
Credo mi immaginassi a capo del tuo branco
cacciatore
di prede
nella jungla
urbana
né potevo
spiegarti che ogni giorno
barattavo un
compenso
in cambio del
mio tempo.
Ora che non
ci sei
in lontananza i tram
graffiano il buio spessore della notte.
Ti immagino
in un paradiso
senza leggi
fisse
dove le cose
non hanno più contorni
dove tutto
muta nello stesso istante.
Da lì
invisibile
tu mi fissi
ancora
per lo
stretto spiraglio
che
interrompe il tempo.
__________
ISTIGAS DE MEMORIA* (di Pinuccia Canalis)
Che
fantàsima
atraesso sa
tzitade
furriolu ‘e
sentidos
bantzigados
in trìziles chelos
de ranzolu.
Indebadas
chirco piatas e
carrelas
istigas de memòria.
A lampalughe
m’aferin onzi tantu
pubadas de ammentos
farfaruza ‘e
su chi fio….
Sas domos sunt istranzas
e fintzas sas paràulas
tenent limba
furistera.
No mi lasses
andare feri feri
porrimi sa
manu
e ghìami,
tzitade….
unu nuscu,
unu risu,
unu faeddu
pro no mi
pèrdere
pro no
restare solu.
*A sos malàidos
de Alzheimer
TRACCE DI MEMORIA*
Come un
fantasma
attraverso
la città
girandola di
sentimenti
cullati
in fragili
fili
di ragno.
Invano
cerco strade e piazze
tracce di
memoria.
Baluginanti
mi giungono
ogni tanto
conocchie di
ricordi
briciole di
ciò che sono stato.
Straniere le
case
e anche le
parole
hanno lingua
sconosciuta.
Non
lasciarmi alla deriva
dammi la
mano
e guidami,
città…..
un profumo,
un sorriso,
una parola
per non
perdermi
per non
restare solo.
*Ai malati di Alzheimer
__________
LA STORIA (di Giovanna Manca)
Contro gli sporchi bolscevichi
tuo nonno puntò con convinzione
il suo moschetto.
Avrebbe preferito
menar le mani sulle sponde d’Africa
invece che crepare
senza gloria
sotto un metro di neve.
La storia è un cielo
di sole due dimensioni
una città improvvisamente deserta
dove il volare fitto
degli storni d’inverno
crea gigantesche forme
a loro ignote.
__________
La strada (di Mario Pinna)
Tace
la strada
deserta
Come me
graffiato
in ogni idea d'amore
Fine (di Mario Pinna)
Un altro angelo è caduto
dall'alto di un palazzo
Niente più ali
a proteggere il suo salto
Lingue sporche gliele han tolte
Angelo
deriso del suo sentire amore
Angelo
privato del dolce planar dei sogni
__________
MAREE (di Carmen Cardia)
Il vecchio dell’ente del turismo
ti porse una conchiglia.
A Saint Malo il mare era scomparso:
ti diede un senso di vertigine il
pensiero
che a quel modo d’un tratto la tua
anima
si svelasse dai suoi bui fondali.
C’era una musica nell’aria
Che tu sola avvertitivi. Io pensavo
cose senza alcuna importanza
mentre tenendoci per mano
camminavamo in un cieco silenzio.
Da quelle parti hanno visto
eserciti possenti
battere con furore la terra
e l’aria scuotere di urla.
Così dicevi
mentre il vento cozzava rami
di tanto in tanto
contro altri rami
e l’acqua si infrangeva metallica
contro le pareti del mondo.
__________
MENTRE IMPERVERSA LA TEMPESTA (di Riccardo Giuseppe Mereu)
Mentre
imperversa la tempesta, Cagliari
si
scioglie in pianto … a Cagliari non piove
ormai
da ore, ma quel lampo improvviso
che
illumina la notte svela, immane,
una
voragine che stupra il cielo
nero,
un indicibile orco che vomita
distruzione
e morte altrove, su questa
tormentata
e dolente terra sarda.
Cagliari
dalle bianche sentinelle
di
pietra, Cagliari protesa al mare,
Cagliari
superba si volta indietro
e
assiste alla disastrosa alluvione
nell’impotenza
senza soluzione.
Piange,
in silenzio, preghiere di mare
per
asciugare il dolore di chi, oggi,
rischia
la speranza o perde la vita
tradita
da un cielo ignoto, straniero.
Paralizzato
mi trovo nel cuore
della
Città del Sole. L’emozione
ha
estratto la sua anima sotto secoli
di
pietre, nascosta lì per curare
vecchie
ferite ancora sanguinanti:
settant’anni
fa fu la distruzione
totale.
Ora, risvegliatosi acuto
il
dolore, dalle cisterne punico
romane
si riversano, copiosi,
fiumi
di lacrime giù per le strade
e
arano un deserto sgomento: semi,
a
germogliare un futuro d’amore.
__________
Parigi (di Giuseppina Zaru)
Ti
interrogavi
se da lì a
un millennio
nel silenzio
delle parole
le nostre
coscienze
avrebbero
avuto
qualche
probabilità
ancora
di parlarsi.
Eravamo a
Parigi
rari
transfughi
nel gelo
tremebondo di un inverno
di cui
tutt’oggi
si serba la
memoria.
__________
Preghiera di un palazzo
abbandonato- (SASSARI) (di Filippo Maria D’Angelo)
Faccio la guardia a chi non vuol
essere rapito
seppur senza sporcare ancora le
mie mani,
guardo la strada di ieri, oggi e
domani.
Occupo aria e occupo cielo, senza
invito.
Lontani da me, parenti d’osservare,
nei vostri specchi d’acciaio
insigniti
non sentirete mai l’odore del mio
mare.
Vi chiedo solo di non
giudicarmi,mai;
non più castello ma ruderi
sommersi
vedo; non più giullari, ma
operai.
Pregate voi com’io ho già fatto.
Che le formiche alle finestre mie
mortali
alzino ancora gli occhi al ciel
compatto,
urlando al vento tutti i loro
mali.
E se l’Italia è in pietra,
veramente,
solo l’eccesso di cemento fa
paura
ma quei ragazzi, in piazza, di
recente
-gli stessi di ieri, con abiti
diversi-
cercano risposte alla loro anima
dura.
Chissà cosa direbbero di questi
versi.
Io prego il cemento che mi diede
vita,
io prego la natura di una parete
bianca,
io prego i ragazzi all’ombra,
incenerita.
Io sogno la mia ombra, che gli
manca.
Per un porto del cielo-
(CAGLIARI) (di Filippo Maria D’Angelo)
Fari nel mare riflesso,
un lampione nella mia stanza;
rivive le vite vissute di quelle
luci,
ordinate nella loro perfezione
instabile.
Vicoli stretti dritti al cuore,
grigie arterie del disordine del
vento.
Passaggi quotidiani, involontari
e svelti
-da una finestra un passaggio.
Gira la testa un guardiano della
città
dall’alto di maioliche divine;
nella penombra del suo trono
riposa le ali,
immobile, interrompe il suo
respiro
e,
dall’alto,
riposa il mare.
Veste da camera- (ROMA) (di Filippo
Maria D’Angelo)
Nere maglie e teste al balcone:
non si arrende il pensionato
al fumo del suo sigaro marrone.
Vince l’uomo sul bagnato
armadio, con le ante spalancate,
in un abbraccio poco umano.
Gocce e gocce nella mano;
caritatevole trova l’estate
dentro la tempesta autunnale.
Il suo male non capisce
chi guarda alla finestra
e sogna; Pasqua o Natale?
Uovo o camino?
Baci e sguardi e risate insieme;
pianti e consigli e rimorsi
imputati all’Inverno.
La mia mente è confusa
nell’incontro di due anziani.
È comune il male mio
a chi guarda da un balcone
-si paga il silenzio dell’amore;
tra persone, uomini.
Pochi o tanti i pensieri
per il mondo oltre quel vetro.
Niente è uguale a ieri.
Presoneris (di Gonario Carta Brocca)
S’abenturiada
dae lepas de tzimentu iscorriolada
arrancat in s’andala ‘e catramu;
unu bisu de luna
chi a gropa aiat batidu
morit allupadu
in carreras de fumu e de nudda:
nudda in sa terra
nudda in su chelu
cuadu dae palattos
bestidos de belludu ‘e titieddu.
In custu logu
ue tottu riden
tottu istiman
tottu disizan
ma nemos bivet a beru
s’anima
unu zardinu est chircande
est chircande s’omine
isticchidu
in sas jannas frisciadas sette ‘ortas.
Prigionieri
La folata
da lame di
cemento sfilacciata
annaspa sul
percorso di bitume;
un sogno di
luna
che in
groppa portò
muore
soffocato
su strade di
fumo e di nulla:
nulla sulla
terra
nulla nel
cielo
nascosto dai
palazzi
con velluto
di nerofumo vestiti.
Qui
dove tutti
ridono
tutti amano
tutti
anelano
ma nessuno
davvero vive
l’anima
un giardino
sta cercando
sta cercando
l’uomo
nascosto
dietro porte
sbarrate sette volte.
Bisos de tzittade (di Gonario Carta Brocca)
Dae sa ‘iddighedda mia troppu minore
unu sonniu apo attidu a sa tzittade.
In d-un’ungrone s’est ingalenadu
de custu logu ‘e intumbos e solòtzos
de macchinas fumigosas
d’animas chi no an tempus de un’allega
de boidores chi isturdin
de lughes chi pertunghen
de trumuzones chi no iscapan prus.
Un’alinu de ‘eranu
colande lestru peri sas vitturas
chin dilichia
duos frores
arestes at basadu
e sa janna ‘e sa vida
a sa vida s’iscantzat
faghende ispossiare bisos noos
in su coro ‘e sa zente
istranza in domo sua
s’unu dae s’atteru iscropaos
dae barandillas d’astraore
d’egoismu
de ruinas d’animas
chi nos cuan
su colore caente ‘e su manzanu.
Sogni di città
Dal mio
paesello troppo piccolo
un sogno ho
portato in città.
S’è assopito
in un cantuccio
di questo
luogo di echi e di frastuoni
di
caliginose macchine
d’anime
senza tempo per un saluto
di
vuotaggini che frastornano
di luci che
trapassano
di vortici
che più non ci mollano.
Un refolo di
primavera
zigzagando
fra le automobili
dolcemente
due fiori
selvatici baciò
e la porta
della vita
alla vita si
schiuse
facendo
sbocciare nuove brame
nel cuore
della gente
straniera in
casa propria
gli uni
dagli altri separati
da barriere
di gelo
di egoismo
di rovine
d’anime
che ci
occultano
il caldo
colore del mattino.
Labirintu (di Gonario Carta Brocca)
A passu lentu
in s’orulu ‘e sa ‘ia
tocau
saludau
iscoidalau
solu solu m’intendo
che foza dae su ‘entu trisinada
in custa currentina
d’animas ausentes
e miradas
chi tottu pompian
chene ‘ider nudda.
Sos isteddos de su chelu
bortados in lampiones
lagrimas de lughe pianghen.
Che apicau
pendet su sero
dae sos arvores mutzurros
chi mancu a sos puzones
dan ospedu.
In custu labirintu
de ‘ias chene cumentzu e torradorzu
su coro
de donnia sonu sighit sa marea
chircande una paraula
unu pessu
chi in sa chirca ‘e Deu nos azuet
innantis chi sa lughe ‘e su manzanu
sorvat sa fide nostra.
Labirinto
Avanzando pigramente
sull’orlo della via
toccato
salutato
sgomitato
mi sento molto solo
come una foglia trascinata dal vento
in questo fluire
d’anime in trance
e sguardi
che tutto osservano
senza nulla percepire.
Le stelle della volta celeste
tramutate in lampioni
lacrime di luce piangono.
Come impiccata
pende la sera
dagli alberi monchi
che neppure agli uccelli
danno alloggio.
In questo labirinto
di vie senza un inizio ed una fine
il cuore
d’ogni rumore segue la marea
cercando una parola
un pensiero
che nella ricerca di Dio ci aiuti
prima che la luce del mattino
la nostra fede faccia evaporare.
__________
QUANDO IL VENTO (di Mario Graziano Ruiu)
Quando
il vento gelido del settentrione
spazzerà
le brume
il
sole inonderà la città.
Allora
ti aspetterò.
I
giorni intanto trascorrono vuoti.
Per
i viali passeggiano
nell’indifferenza
degli altri
le
ombre della gente.
Tutto
quello che desidero è stringere la tua mano
percepirne
il calore
nel
traffico che graffia il silenzio
di
queste sere d’inverno.
I
giorni intanto trascorrono vuoti.
La
foschia ora copre la città
che
come un lontano ricordo
lentamente
svanisce.
__________
SILENZI (di Elias Pintore)
Quattro
saltimbanchi ungheresi
snocciolarono
senza ispirazione
il loro
repertorio.
Tu lasciasti
cadere una monetina nella ciottola
dicesti
che il più magro
ricordava
il personaggio di un quadro di Chagall.
Avremmo
dovuto parlare
di noi
due quella sera.
Oggi
ricordo solo qualche sospiro
il
profilo del tuo volto
le
nuvole di fumo che si levavano
dal
finestrino della cinquecento.
Ci
avvolgeva
la
gelida luminescenza della città
mentre ignari
fiutavamo
il silenzio
delle
nostre coscienze.
__________
SULLO SFONDO (di Stefano Demartis)
Resto ancora
lì,
ancora un
secondo.
Poche case,
pochi colori
sullo
sfondo.
La
sensazione di non essere
mai andato
via.
Vedo una
casa
la mia
senza
coraggio
per dirle
addio.
__________
TI GUARDO (di Monica Pulina)
Ti guardo
vai via.
L’aria della
città
è pregna
del tuo
profumo.
Lo spazio
invaso
dalla tua
presenza.
Il mio cuore
scoppia
d’amore.
Non ti vedo
offuscata
dai miei pensieri.
Ed è
l’unico
istante
in cui posso
fermarti.
__________
UNA METAFISICA DELLA CITTÀ (di Andrea
Pirellas)
La città in se,
res cogitans o res extensa?
I corpi che la popolano,
le anime che la popolano.
È piuttosto la proiezione
dell’esistenza umana sul pianeta Terra:
tra relazioni e
possibilità nella frenesia.
Tutti ad inseguire la
felicità,
sia maledetta la frenesia
della città
sia maledetta la ricerca
della felicità.
Dall’alto la
città è un punto
perso
nell’infinità spazio temporale.
Soli e
fragili noi
tra le cose materiali
nell’universo
delle idee.
UN’ETICA
DELLA CITTÀ (di
Andrea Pirellas)
Nella città,
ognuno che pensa a se
stesso.
Nella frenesia,
la mancanza di tempo
l’incapacità di stupirsi.
Egoismo tanto, ma c’è un
barlume di altruismo.
Diamo ossigeno alla
fiammella del rispetto,
le relazioni sono tutto
quel che abbiamo!
La città è tutto quel che
abbiamo!
Muri imbrattati, strade
sporche: tristezza.
Il vivere civile armonioso
è il bene prezioso da
perseguire:
una pepita che
se i cittadini scavano
si troverà.
UN’ESTETICA
DELLA CITTÀ (di Andrea Pirellas)
Passeggi,
osservi la
città
si accende il
cervello.
L’architettura
della cattedrale, la sua monumentalità
i balconi con
rose ortensie ciclamini, trionfo cromatico
le piazze con
la gente in fermento, ben vestita.
In centro la
statua dell’orgoglio cittadino
ma tu hai il
tuo idolo e la cambieresti.
Ti immagini
delle aggiunte a quanto già c’è.
Se fossi
sindaco faresti più mostre
se fossi
sindaco creeresti più parchi.
Lavori di
fantasia: geometria ed aritmetica.
Al tempo
stesso ti sorprendi di quello che vedi ogni giorno
sotto luce e
punti di vista diversi.
Ed in fondo
ti convinci che la tua città è bella
così com’è.
__________
NELLA MIA CITTA’(di Natalina Foddai)
Nella mia citta'
c'e' la mia cantina
dove un buon vino
sa di sogni e sudore.
Un bicchiere troppo sporco
muore nel fondo del legno
e le mie mani
assaggiano i nodi dell' uva.
Tutto giunge a maturazione,
a solitudine,
solo quella che una citta'
Puo' dare.
__________
Venezia 1989 ( di
Maria Vittoria Piga)
Venezia è immergersi in un dolce sogno e sognare
come in sogno essa è apparsa
città di grigi, di nebbia, di brume.
La luce su calli e campielli, su rughe e ponti
sbianca a tratti spazi che non si vedono
perché avvolti dal grigio invernale e dalla malinconia
dell’acqua.
Città di fantasmi e di finestre sbarrate, di ricordi e
pietre mute.
Il profondo silenzio, interrotto dai nostri passi
che riecheggiano sul selciato grigio,
il profumo bagnato delle sue case.
Incantati dal dolce scorrere sull’acqua della gondola nera
il suo taciturno nocchiero scivola lungo il canale
come su tappeti d’acqua.
Sotto lo sguardo di cento finestre
ci immergiamo nei suoi vicoli stretti e bui
alla ricerca di labirinti di marmo.
Un intrico di vicoli d’acqua talmente stretti fra loro
da pensare a una prigione di cristallo.
Ecco all’interno delle sue pietre…
Una luce straordinaria, una luce di polvere d’oro.
Le volte delle chiese sembrano rincorrersi sotto le cupole
sontuose
in un girotondo di statue mute.
Raffinate bomboniere i suoi caffè,
preziose maschere, velluti sfavillanti, merletti, veli
luccicanti…
è la Venezia delle feste, del carnevale, della gioiosa
trasgressione.
Il rintocco delle campane di San Zaccaria
il sordo fischiare del vaporetto svegliava al mattino
il sonno tranquillo dei nostri corpi.
Immersi in un pigro torpore
Sentivamo il fascino del suo profondo languore.
La corsa del tempo si fermava e…
la nebbia rallentava i nostri pensieri e i nostri passi.
Sassari ( di Maria
Vittoria Piga)
Che dire di te mia città?
Città strana
fatta di umori e di suoni
gioiosa e malinconica
cinica e generosa
genuina e viva nella lingua della sua gente
fatta di umori e di suoni
gioiosa e malinconica
cinica e generosa
genuina e viva nella lingua della sua gente
Slarghi irregolari
scorci caratteristici
e scenografici cortili si aprono
come per incanto
in teatri all’aperto.
scorci caratteristici
e scenografici cortili si aprono
come per incanto
in teatri all’aperto.
Nel tripudio dolce della sera
rondini sfrecciano festose
in cielo azzurro
il loro canto uniscono
a voci spensierate di bimbi
e chiacchierii di comari.
rondini sfrecciano festose
in cielo azzurro
il loro canto uniscono
a voci spensierate di bimbi
e chiacchierii di comari.
La città del sogno (
di Maria Vittoria Piga)
La nostra via fu quella che in altra vita
noi percorremmo
sfiorando con i nostri passi
i consunti gradini.
In realtà fu un sogno
il nostro peregrinare per vicoli oscuri
di città straniere, traditi da miagolii di gatti.
Seguimmo come viandanti
fiabe quotidiane
in case di sabbia ad altri sconosciute.
fiabe quotidiane
in case di sabbia ad altri sconosciute.
In un triste girotondo
il labirinto del sogno
quella sera cercavi.
il labirinto del sogno
quella sera cercavi.
Cantasti la tristezza del silenzio
mentre voci sommesse
coglievano il disperato pianto della fonte.
mentre voci sommesse
coglievano il disperato pianto della fonte.
Acqua spargesti nel fuoco del mio cuore,
nella nebbia brandelli trovasti
e canti prigionieri in rovi appassiti.
nella nebbia brandelli trovasti
e canti prigionieri in rovi appassiti.
La nostra via
era quella del vento,
giorno dopo giorno
ora dopo ora
lastricando il viale
con parole solo a noi conosciute.
era quella del vento,
giorno dopo giorno
ora dopo ora
lastricando il viale
con parole solo a noi conosciute.
I sospiri cercavano
l’illusione del sole…
l’illusione del sole…
svaniva la paura della notte
con l’inganno della sera.
con l’inganno della sera.
VENEZIA
(di Maria Grazia Angius)
Sopra Venezia c’è un cielo giallo
così dicevi guardando lontano
dove Murano si perde nel nulla
e strane stelle sputa la laguna.
Brividi d’acqua di putrefatti sogni
i tuoi giorni mai conclusi
in un carnevale che non ha fine
di corpi affamati di altri corpi.
Sopra Venezia adesso c’è la notte
profumo denso di un mare senza onde
il tuo respiro che si è fatto sereno
il tuo amore eterno e già finito.
Sora San Marco volano le rondini
forse le stesse di mille anni fa
vorrei baciarti con grande dolcezza
città perduta mia voluttuosa donna.
__________
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