venerdì 6 giugno 2014

Le nuove porte della vecchia Sassari, porta Rosello



Le nuove porte della vecchia Sassari, porta Rosello
di
Riccardo Mansani



A porta Rosello, di fronte alla facciata assolata della chiesa della SS Trinità c’è un piccolo bar, il vecchio Caffé Trinità. Ricavato nello spessore di ciò che resta delle antiche mura, è stato ristrutturato, anni fa, da una ditta di ferramenta come ricordano gli scontrini dove compare la scritta: “Elettro & Ferramenta Srl”.
Ma la sua vocazione popolana, grazie alla sua ubicazione, non è cambiata. In tempi di cambiamenti globali è invece cambiata, almeno in parte, la tipologia dei suoi frequentatori.
La barista, due occhi azzurri al neon in una nuvola di cappelli nerissimi, viene dall’Ungheria, si chiama Egybet, ma si fa chiamare Janet, più facile, dice. Sorride cordiale mentre ti serve il Campari nella sua bella camicia giallo oro perfettamente intonata all’abbronzatura che non ha molto delle pianure dell’Europa continentale da dove proviene. È in Italia da molti anni e ha un figlio quattordicenne. Suo marito invece  è sassarese doc, oggi è venuto ad aspettarla e, nell’attesa, parla concitato in dialetto con i clienti seduti ai tavolini. Ridono, scherzano con le birre che si svuotano nei bicchieri ad ogni giro. Anche la collega di Egybet viene da lontano, Cristina è slovacca, bionda, bellissima e austera serve i clienti con la classe di una nobildonna  fin de siecle.
Mi siedo anch’io a un tavolino e sorseggio la mia birra mentre mi scorre davanti un’umanità chiassosa e variopinta.
Alla città popolana si è sovrapposta da tempo una piccola kasbah che a Porta Rosello, la vecchia porta di mazzddu, emerge in tutte le sue facce: ragazzi dalla pelle di ebano, donne con gli occhi a mandorla, caftani colorati si confondono con la vecchia Sassari di giovani spose taglia XL che vanno e vengono dal vicino mercato, di nonne che spingono carrozzine con pupi sbraitanti, di scaricatori in canottiera.
Proprio davanti al Caffé gli ambulanti dei paesi parcheggiano i loro motofurgoni, vendono formaggi e salsicce di loro produzione e parlano fitti con i nuovi inquilini scuri e muscolosi. La comunità senegalese è una delle più numerose a Sassari e si è ben integrata nella città. “Siamo i Sengalesi di Sassari” ti dicono con piccolo orgoglio compiacente, e un po’ruffiano, durante le feste che in estate organizzano nella vicina piazza Tola. Qui si esibiscono con i loro gruppi di tamburi africani nei quali, da qualche tempo, anche i Sassaresi hanno cominciato a infiltrarsi; spesso, in mezzo a loro, spicca la capigliatura azzurra di Nerina Nieddu, la grande attrice in limba che abita qui vicino e da loro ha imparato i ritmi delle percussioni africane. 
Via Rosello è una crepa nel corpo della città vecchia, una spaccatura, una specie di canyon nel cui fondo ombroso scorre il fiume multicolore di questa umanità frettolosa e allegra con le sue rapide e i mulinelli delle soste davanti alle botteghe degli ortolani dove il tempo sembra rimasto fermo per parecchi decenni. Al suo ingresso, unico a conservare qualche traccia dell’antica porta, ti accoglie sulla sinistra, la facciata rosso veneziano di Palazzo Cugia (sec. XVIII specifica il segnale turistico, quasi illeggibile per la ruggine). I balconcini in ferro battuto sporgono leziosi dal frontale rotto, a pian terreno, da una rivendita di materiale elettrico che ha rifinito ingresso e vetrine con lastre di travertino lavorato a specchio: praticità al potere che fa a pugni con le decorazioni originarie delle finestre ovali in tufo grezzo e lo scalone a tenaglia, dichiarato dal cartello turistico, ma nascosto dietro un portone perennemente chiuso. Il settecentesco costruttore dovette arrivare stanco alla meta! Se guardi in alto ti accorgi che l’elaborato ed elegante Rococò del pianterreno si attenua, salendo, fino a concludersi in un improbabile e spoglio spigolo razionalista, o forse è stata la mano di un anonimo restauratore anni ’30 imbevuto di futurismo: “le decorazioni sono vermi crepuscolari….”
                                               
Attraversata via Lamarmora, l’antica Carrera Manna, ti inghiotte una baraonda di bottegucce variopinte, piccoli bazar che espongono chincaglierie da mille e una notte: ametiste, agate, scarabei di turchese, fili di pietre dure di ogni tipo, ebani, ciondoli d’argento, batik… mancano i sacchi di juta pieni di spezie, ma basta chiudere gli occhi e abbandonarsi agli odori umidi e spessi che impregnano l’aria dalle cassette dei fruttivendoli e il gioco è fatto, è l’oriente che t’ingoia con le sue mercanzie colorate, il suo formicolio di genti diverse, i vicoli dei suoi suq
Ma l’unico vero bazar della zona è tutto sassarese, a due passi, nella vicina piazza Tola, addossato al vecchio palazzo dei conti Sant’Elia, vicino allo storico bar Daniele, il solo a Sassari che puoi sperare di trovare aperto oltre le due del mattino. Appoggiate sul marciapiede e appese agli intonaci scrostati dei muri, la premiata ditta Cossu Mario & Figli espone le sue mercanzie. Qui si vende di tutto. Riscopri oggetti di cui avevi perduto la memoria, sedimenti di altre epoche, ricordi di infanzie lontane giunti a noi fuori tempo massimo, ma ancora rispondenti a quelle umili esigenze che sopravvivono dietro le finestre socchiuse dei vicoli. Gabbiette per uccelli in legno e filo di ottone con i loro abbeveratoi in terracotta smaltata, trappole per topi in fil di ferro: capolavori di artigiani dimenticati, monumenti all’amore e alla pazienza delle mani che hanno tagliato ogni barretta e messo insieme tutti i tasselli di questi piccoli e geniali marchingegni. Strani attrezzi a metà strada tra un grosso cucchiaio e un rastrello, servono a raccogliere le bacche di mirto: si pettina il cespuglio pieno di frutti, i rametti e le foglie, morbidi, scorrono via mentre le bacche rimangono impigliate tra i denti del pettine, si staccano e si raccolgono nella cavità del cucchiaio. Recipienti e oggetti zincati di ogni tipo e dimensione: contenitori per olio con al fondo piccole cannelle di ottone, annaffiatoi pluriaccessoriati, dosatori per olive e semi, setacci per farina, teglie per cucinare in casa la fainè, pentoloni giganti in alluminio indispensabili per le riunioni in campagna con spuntino base di pecora bollita. Anche la plastica è presente in tutte le sue manifestazioni: il sign. Cossu, che abita al piano superiore, certamente non è uno snob nostalgico, disperato difensore di un mondo in via di estinzione, il suo bazar è cosa viva e offre tutto ciò che può essere utile senza sfizi estetici.
L’unico ingresso, un’alta porta ad arco, ingombra di merci, immette in un ambiente oscuro dalle pareti coperte di scaffali stracarichi. Lanterne in ferro battuto, imbuti in alluminio, cavatappi, piccoli soprammobili in vetro, sacchetti di perline colorate, statuette in ceramica, terraglie e ancora teglie, pale per forni a legna e un’infinità di altre piccole meraviglie; perfino il banco in fondo allo stanzone è ricoperto di merci, strani piccoli arnesi in ottone di cui non è ben chiaro la destinazione d’uso. Da una porta oscura vicino al bancone si accede ad altri tre stanzoni anch’essi traboccanti di mercanzie. Si ha l’impressione che la successione di vani non debba finire, ma il giro si conclude in un’ultima stanza, è il vecchio laboratorio di riparazioni, qui, una volta, si riparavano gli oggetti rotti o logorati dall’uso perché questa era l’attività originale della ditta Cossu, attività andata ormai a esaurimento, seminata dall’irruenza di un mondo che corre troppo veloce per fermarsi ad aggiustare oggetti che si possono, più proficuamente, sostituire.
Con un pizzico di malinconia lasciamo il bazar oscuro per riemergere nel clamore della piazza.  Lo sguardo impietrito di Pasquale Tola ci segue mentre imbocchiamo via Pettenadu.
Pasquale, seduto sul suo scranno, sembra in perenne riflessione. Fu Rettore dell’Università di Sassari, magistrato e, nel 1848, fece parte del parlamento sardo. Il fratello Efisio, luogotenente dell’esercito sabaudo e repubblicano della prima ora, fu condannato a “pena di morte ignominiosa” e giustiziato nel giugno del 1833 per essere stato sorpreso a leggere “La Giovine Italia” di Mazzini. Forse è questo il pensiero fisso che occupa la testa di marmo di Pasquale.
Via Pettenadu è una delle poche strade che non sembra assecondare la geometria intrigata dei vicoli. Dritta, perpendicolare al lato più corto della piazza, ci accoglie nella sua penombra umida e rassicurante: dopo lo spiazzo solare di Carra Manna rientriamo nel ventre di Sassari.
La gloriosa trattoria dell’Assassino, da qualche anno, si è trasferita qui, a pochi passi dalla vecchia sede. Vi si accede da un ingresso ad arco che immette in un cortile dove in estate i turisti in cerca di folklore e refrigerio si siedono ai tavolini per mangiare coratella, carne di cavallo, fave e tutti gli altri piatti della cucina sassarese; i Sassaresi in ciabi, invece, non la frequentano più come una volta. La vecchia sede della trattoria è a due passi, in vicolo dell’ospizio dei Cappuccini dal quale, passando sotto un archivolto, dove una Madonnina ricorda l’anno santo 1950, ci riimmettiamo nella fiumana levantina di via Rosello.
 Parlando con la gente si ascoltano curiose leggende metropolitane. Si dice, per esempio, che in una casa di via Amsicora, intorno al 1850, si fosse rifugiato il famoso bandito Giovanni Tolu, prima di darsi alla latitanza per aver ridotto in fin di vita il canonico Pittui. Qui sarebbe vissuto alcuni mesi nascosto e protetto dagli abitanti dei vicoli. Enrico Costa, che raccolse le memorie del bandito dopo la sua lunga latitanza, parla delle sue numerose scorrerie nelle campagne sassaresi, ma non cita mai quest’episodio. Curioso no?  Se la diceria fosse vera la piccola kasbah di Sassari, per qualche mese, molto tempo fa, avrebbe avuto anch’essa il suo Pépé le Moko.



 






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