di
Luisella Sassu
In un pomeriggio uguale a tanti altri, Luca
cacciò il sole oltre le persiane e protetto dal buio si barricò nella cameretta.
Il suo corpo, arrotolato come un bruco non ancora pronto ad affrontare il
percorso di crescita, cadde sulle coperte senza fare rumore.
Gli idoli amati occupavano il caos del suo
universo; nella casa echeggiavano le note del violino di Sean Mackin e i suoni
della canzone Ocean Avenue vibravano
sulla sua pelle ferita. La voce di Sara oltrepassò il muro dell’incomunicabilità
che univa i due fratelli:
- Abbassa il volume di questa musica
infernale!
- Non rompere, lasciami in pace.
- La frangia, color viola elettrico, ti copre
un occhio, ti fa assomigliare a un ciclope e…
Luca sollevò la testa, incrociò le gambe, sedette
tra i computer, il mucchio di cd, cuffie e altri strumenti elettronici, sparsi
sul letto.
- Sono emo? - disse con aria di sfida -
saranno cazzi miei o no? L’emo non è il ciuffo, è uno stile di vita, è
sentimento, bisogno di essere capito.
– Ok, tranquillo…
- Non ne posso più dei pregiudizi di merda. Anche
tu punti il dito e usi la bocca per giudicare.
Sara lo fissò:
- Luca, tu sei gentile, romantico, le mie
amiche vanno pazze per te. Loro non amano il modello maschile del macho
tenebroso e tu non ti credi un duro.
- Hai finito la lagna? Va-tte-ne.
-Ti comporti come uno sfigato. Non lo seiiii!
- Stai dicendo solo cazzate, sparisciii!
Luca rimase solo, affondò la testa nel
cuscino e pianse. I singhiozzi scuotevano le spalle magre, bevette le sue
lacrime, si nutrì di emozioni forti, quelle che spaccano l’anima. Afferrò il
lettore mp3, in cui aveva scaricato un’infinità di brani musicali e negli
orecchi si sparò la sua musica, musica emo.
Lo sguardo barcollò, un senso di nausea lo assalì,
aveva voglia di vomitare. Vomitava sempre nei momenti di difficoltà, s’isolava
dal gruppo, rifiutava il dialogo con gli altri e si chiudeva in un mutismo ostinato.
Sin dall’infanzia la solitudine era stata l’amica
preferita. “Sentimento di solitudine, nonostante la famiglia e, soprattutto, in
mezzo ai compagni”. Si riconosceva in quel concetto di Baudelaire, lo aveva
fatto suo, rispecchiava alla perfezione il sentirsi solo al mondo.
Vomitò in silenzio.
- Ciao, disse la madre. Luca scivolò dal
letto, la sua figura alta, esile si stagliò in piedi e a passi lenti raggiunse
la voce lontana. La faccia pallida, pallidissima s’inclinò da un lato, le labbra
sfiorarono la guancia della madre, ne assaporarono il profumo intenso,
evanescente com’era lei, eterea, sfuggente, distante.
- Come va? Come va a scuola? Vai in palestra?
- Tutto okay mamma, bene, va tutto bene, a
dopo.
- Santo cielo! Non ti avevo detto della cena?
Stanotte vado fuori con gli allievi del corso di danza. Ah, dimenticavo…Oreste
è partito con il primo aereo della mattina. Oggi aveva un’udienza a Roma.
Un’infinità di volte aveva tentato di cacciare
dalla sua vita quella persona incapace di vestire il ruolo di un padre buono. Nella
sua mente vagavano voci confuse, contraddittorie, che gli suggerivano soluzioni
senza appello: “Uccidilo, sbarazzati di lui.” Altre lo esortavano alla
prudenza, alla riflessione. No, forse non avrebbe ucciso chi gli impediva di
volare, di sbagliare, di sognare, di crescere e affermare la propria identità.
Uccidere il suo rivale? L’uomo che gli rubava l’amore di sua madre? Detestava
le tragedie greche, preferiva ascoltare le ragioni dell’amico Freud. Sarebbe cresciuto
e, tagliate le redini, avrebbe galoppato lungo una strada disegnata da se
stesso con i colori dell’avventura e della libertà.
Un giorno Luca imparò a dire di no:
-No, non vengo alle partite del torneo di
calcetto, mi fa schifo quell’atmosfera ipocrita, che si respira sui campi
d’erba sintetica. Non tollero il puzzo di sudore dei giocatori, il loro correre
e affannarsi, il gergo volgare, che anima gli scontri e le diatribe per la
contesa di un pallone.
-Ma guarda me, non ti piacerebbe avere un
fisico palestrato come il mio?
-Sì, sì, ok, borbottava Luca tra i denti. Poi
sprofondava nel più assoluto silenzio e imprecava fra sé: “Ma vai al diavolo,
non bastano i tuoi muscoli per fare di te un modello da imitare, io voglio
essere me stesso, porca puttana”.
Odiava quell’uomo egocentrico, arrivista, con
i capelli grigi, di una sfumatura di grigio uguale a quella delle righe
dell’abito gessato, che lo facevano somigliare a un boss malavitoso. Era
brutto, quadrato, camminava con i piedi larghi, il sorriso stretto, gli occhi
rotondi e la ventiquattrore professionale gonfia di cartacce.
La madre uscì e il tonfo della porta, che si
chiuse alle spalle, ricondusse Luca al presente. Fece perno su un piede, girò
su se stesso e ritornò in camera, camminando con le gambe contorte, fasciate
nei jeans aderenti, la t-shirt raffigurante la band preferita sghemba come il
suo sorriso. Gli occhi azzurri fissarono senza vederli i libri sulla scrivania.
Doveva studiare, preparare la tesina per
l’esame di maturità. Al diavolo la scuola! Luigi lo aspettava nella penombra
del solito pub.
-La moda cerca modelli di maschi anoressici,
figure ambigue, che nell’aspetto esteriore si confondano con quelle femminili,
gli aveva detto, facendo scorrere le dita tra i capelli biondi.
-Non vedo a chi possa interessare il mio
fisico scultoreo, rispose Luca, premendo la mano sull’addome infossato. Risero insieme
uniti e complici. Luca gli voleva bene, ma gli mancava il coraggio di andare a
vivere con lui.
Si guardò intorno nella stanza alla ricerca
delle chiavi della moto. Le trovò nella confusione degli oggetti sul letto, le
chiuse nel pugno e uscì. Uscire per strada era il più feroce dei compiti per
Luca. Lo spaventavano gli sguardi torvi della gente; i pensieri malvagi distillavano
gocce di ferocia; le allusioni, le risate basse, gli ammiccamenti lo
percuotevano, lo ghermivano, risalivano la pelle e penetravano in profondità.
Sentiva l’odio, la repulsione, la voglia di rivalsa contro di lui, contro il
suo modo di essere, di vestire, di vivere, di respirare.
Entrò
in garage, indossò il casco, accese il motore del suo scooter e imboccò il
rettilineo che portava in centro città. La moto sobbalzava sulle buche,
procedeva a zigzag sugli angoli, gli spigoli, i ritmi stonati, i fraseggi di suoni
e rumori sincopati, diversi da quelli pacati, rassicuranti della campagna. La
città, il chiasso, il frastuono con il loro balenare e vorticare ininterrotto,
lo spaventavano. Attraversò il luccichio intermittente dei fari delle auto, i
messaggi fasulli di cartelli pubblicitari, la rappresentazione accattivante di
oggetti amorfi esposti in specchi per narcisisti. Arrivò tra le ombre di una
piazza poco illuminata e, seduti come vecchi stanchi ai tavolini di un bar, vide
un gruppo di coetanei, che avvitavano le loro solitudini dentro un recinto di
asfalto in una città grigia, povera di sussulti.
Rallentò la velocità, un piede era già a
terra, le mani stringevano ancora i freni. Il branco fiutò l’odore della preda
e la caccia cominciò, rapida, sorprendente e il ragazzo non ebbe il tempo di
difendersi dalla forza bruta che si abbatté su di lui.
Gli aguzzini lo afferrarono per il giubbotto,
lo strattonarono, lo trascinarono sulla crosta grumosa di bitume quasi fosse un
rifiuto umano da cancellare dalla faccia della terra. Il casco schizzò lontano
e la testa nuda picchiò sul bordo del marciapiede provocando un rumore sordo, sinistro.
Luca respirò il sapore acre del sangue che gli scorreva nella gola e rimase lì,
nudo, vulnerabile ad assistere alla sua distruzione, come annientato da una
sciagura inevitabile, mentre le bestie ridevano e lo ricoprivano di sputi, gli sferravano
pugni, schiaffi, lo tempestavano di calci sulle gambe, sui fianchi, sull’inguine
quieto.
-
Brutto frocio, verme schifoso, stronzo di merda, vomitavano con la bava alla
bocca. In lontananza un cane guaiva, le donne spiavano dalla finestra, gli
uomini della città guardavano quella scena atroce attraverso uno schermo in cui
si specchiava il grigiore della loro indifferenza.
Il mondo intero lo schiacciava, si faceva
scherno di lui, che era un essere diverso e rappresentava la diversità. Una
diversità non accettata, da offendere, da emarginare. Luca precipitò nelle
tenebre, sprofondò in un abisso e raggiunse le viscere della terra.
Ora, giaceva immobile al centro di una via
anonima, rannicchiato su se stesso, le ciglia spente, gli occhi infossati come
crateri, il ciuffo di capelli viola punteggiato
di schegge rossastre. Una musica cupa, inquietante si sprigionò dalle cuffie
dell’Ipod, caduto poco distante dal suo corpo massacrato, le note impazzite
volteggiavano nell’aria in una danza scomposta.
La notte alitò su di lui, rivoltò i suoi
sogni, i pensieri, i desideri, le paure. Nelle visioni gli apparve un bambino
che giocava, si trasformava in un power ranger, dotato di una forza straordinaria
e combatteva per distruggere i mostri cattivi: iniziò una battaglia che sembrò
non finire mai.
E poi
venne la primavera, e Luca si svegliò, dopo aver dormito profondamente su un
cuscino bianco di ospedale.
- Ben tornato fra noi, tesoro.
Avrebbe voluto cingere in un abbraccio
l’amore della madre, ma le braccia erano stanche e le palpebre socchiuse
vagarono altrove alla ricerca di una luce. Allora lo vide. Luigi era lì,
accanto a lui, gli accarezzava la fronte, là dove le bende bianche lasciavano
un lembo di pelle nuda. Luca incontrò il suo sorriso e sentì di essere uscito
dall’incubo. La sofferenza lo aveva cambiato e il timido adolescente era diventato
forte e coraggioso, come uno degli eroi della sua infanzia. La voce era ferma,
solo il respiro ansimava un po’. Gli afferrò la mano e disse:
- Camminerò con te e sfiderò le ipocrisie di
un mondo che offende i deboli e i diversi.
Seguì un lungo silenzio.
La madre fu la prima a parlare:
- Luca sei tornato alla vita e questa è la
sola cosa che conta.
- Sì, questa è la prima certezza da cui
ripartire, disse Luigi.
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