Piero
il Re del caos
di
Marco
Fenudi
Mentre era in coda alla
cassa del supermercato, uno dei tanti, forse troppi della sua città, Piero si
sentiva stranamente calmo. Aveva appena cacciato via un pensiero, un quesito
idiota che lo aveva rabbuiato chiedendogli se avesse preso il portafogli dal
cruscotto della sua 124 Sport, quella reliquia di automobile - quasi un Ex-Voto
- che utilizzava negli spostamenti.
Mentre sorrideva beato,
un'altra inquietudine sostituì il pensiero ed avvertì un non so che. Come la
calma prima della tempesta.
La fila continuava a
scorrere, quando ebbe improvvisamente prurito.
Dietro l'orecchio.
Irresistibile.
Irraggiungibile.
Goffo com'era e per di
più carico di prodotti abbarbicati su ogni punto d'appoggio offerto dalle
spigolosità del suo corpo asciutto, era una bella impresa.
Ma il prurito era
irresistibile, cresceva ogni secondo di più, come una sequenza esponenziale
inarrestabile.
Gli oggetti che si
accingeva a pagare, impilati l'uno sull'altro a voler sfidare le più elementari
leggi della fisica, sembravano non attendere altro che una scusa, una mossa
falsa, per innescare un bell'effetto domino e sparpagliarsi a terra con immenso
clangore di scatolette-buste-bottiglie-confezioni, multiformi e multicolori.
L'immenso clangore che avrebbe sputtanato agli occhi del mondo la terribile
disorganizzazione di Piero, il re del caos.
La stessa
disorganizzazione che, trionfante, gli aveva sghignazzato in un orecchio che
non aveva preso il carrello porta spesa; la stessa che sadicamente glielo aveva
sibilato quando aveva già percorso alcune decine di metri all'interno del
supermercato. La stessa disorganizzazione a cui aveva risposto stizzito «devo
prendere solo due o tre cosette».
La paura della figura di
merda, davanti a tutte quelle persone che già lo osservavano sottecchi per il
modo in cui si era presentato alla cassa, lo teneva sospeso tra l'impellenza
del prurito ed il tentativo di darsi un contegno.
Ebbe un tremito ed
immediatamente la paura lo agganciò alla gola, tenendolo sospeso tra
dissimulare il prurito e dichiarare la resa; tra chiedere impietosamente «Qualcuno
mi strappi via l'orecchio con tutto il prurito» e la voglia di lanciare
tutti i prodotti per aria ed abbandonarsi all'autocompiacimento, grattandosi
con un dito-una-mano-tutte-le-mani-i-polsi-le-ginocchia e, se non bastassero,
anche con i piedi. Tutto pur di fermare quel tarlo che si era impadronito di
ogni respiro, ogni pensiero, ogni battito del suo cuore accelerato,
trasformandolo in una littorina sgangherata lanciata a tutta velocità su un
binario morto. Lo schianto era inevitabile, questione di momenti.
Valutò, in verità, per un
attimo, la possibilità di riuscire a calmierare il prurito strofinandosi sullo
spigolo della maniglia del carrello porta spesa di quella donna che lo seguiva nella
fila. Lei, infatti, in maniera del tutto singolare, avanzava spingendo il
carrello per la parte posteriore, rivolgendo la maniglia in avanti, come fosse
un paraurti. Un paraurti tra loro. La valutazione di Piero durò solo un attimo,
prima di arrendersi all'evidenza che, l'impresa di piegarsi sulle gambe per
assumere una posizione consona allo scopo, mantenendo l'equilibrio - suo e del
carico di scatolame - non era alla sua portata.
E poi c'era il suo
sguardo.
Lei, la sua vicina, la
conduttrice del carrello/paraurti, la padrona della maniglia che gli aveva
balenato soddisfazione al prurito, lo fissava.
Lo fissava e Piero non
riusciva a leggere se ella fosse più incuriosita dal suo carico sporgente o più
speranzosa di assistere al crollo degli oggetti e ridere di gusto.
Optò per la seconda, la
più ignominiosa, dopo aver adocchiato l'ordine con cui lei aveva sistemato la
spesa nel carrello. Quello non era un carrello della spesa pieno di prodotti
gettati alla rinfusa come usano gli umani: era una esposizione perfettamente
bilanciata, una fiera della razionalità, un Expò della Spesa.
Mentre pensava queste
cose, Piero, lentamente ruotava sul suo asse, sconfitto; volgeva le spalle a
quell'ordine minuzioso, dandosi un contegno ma essendone rapito. Non riusciva a
capacitarsi di tanta armonia, lui che viveva agli antipodi, nella palude del
suo caos primordiale...
E poi era bella.
Lei era bella di quella
bellezza poco appariscente delle cose a posto. Così bella che Piero, mentre si
voltava tenendole lo sguardo timidamente incollato, somigliava ad un Camaleonte
per la capacità di roteare gli occhi con angolazioni strabilianti.
Quando perse il contatto
visivo, sospirò.
In quel preciso istante,
una folata intensa di profumo femminile lo preavvertì e Piero sorrise d'anticipo.
Avvertì un polpastrello
sfregargli lentamente il retro dell'orecchio sinistro, esattamente alla
sorgente del prurito.
« Mmmmm...» fu il suono che emise mentre espirava tutta l’aria dai
polmoni.
Un'unghia femminile,
alternata al polpastrello vellutato di quello stesso dito che era giunto a
salvarlo, gli procurava un piacere che la pelle d'oca tradusse in parole mute
di felicità; parole in rilievo sulla sua pelle mugolavano una sequenza silente
di Aaah, Mmmmmh, Uuuhhhh.
«Non fermarti,
disse tra se e se, non fermarti – ti prego! Mi stai salvando la vita...»
In quell'abbandonarsi al
sollievo perse un pacco di pasta; si irrigidì ma non si mosse poiché non udì
alcun tonfo provenire dal pavimento.
Dopo un attimo, la mano
di lei ripose gli spaghetti in posizione originaria, tra costole ed
avambraccio, sussurrandogli «SSSSSSHHHH! Vai avanti, la cassa è libera».
Piero avanzò rilassato,
poggiò i prodotti sul nastro automatico con una destrezza nuova e si voltò
verso lei.
Le scattò una foto con un
battito di ciglia e la sua posa era perfetta, una foto bellissima, spontanea
come quella di una modella davanti al fotografo.
Arrivato a casa, sviluppò
quella foto in una poesia di parole d'amore coloratissime, che incorniciò ed
appese in un angolo della sua testa.
Da quel giorno la portò
sempre appresso con se, così da averla sempre davanti agli occhi. Lo aiutava a
tenere in ordine i pensieri.
Teneva bene a fuoco
l'immagine di quel volto, di quelle parole e per giunta non aveva bisogno di
muovere gli occhi come un camaleonte per cercare tutto ciò che sapeva di
possedere, le evidenze di quella vita caotica che gli apparteneva, ma che
sembrava continuamente sfuggirgli dalle mani.
Iniziò persino a pulire
gli interni della 124 Sport, eternamente in contrasto con la carrozzeria
sfavillante, a cui dedicava una cura maniacale fatta di lavaggi frequenti e
conseguenti lucidature col panno. Lucida fuori e caotica dentro: quella era la
sua automobile, al pari della vita.
«Amore!» Un giorno, alzandosi, chiamò così, timidamente, quel
ritratto.
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