LA CITTA’
CELESTE
di
Annalisa
Costa
«Ehi, dico a te, credi davvero di averci
pensato solo tu? Guarda che anch’io qualche volta penso di avere una mia
visione, di essere un profeta, una che sa dove andremo a finire.
Ma l’aspetto
che mi affascina di più, porca miseria, è capire da dove siamo venuti! Se
l’anima è immortale, come molti sostengono, allora dove stanno le anime prima
di venire sganciate quaggiù? E perché?»
Patrizia cominciò a scrivere rivolgendosi direttamente al lettore che
avrebbe tenuto il suo romanzo tra
le mani poi, dopo questa prima frase, si buttò sul letto e cercò di immaginare
la città celeste che fin da bambina la perseguitava.
La
prima volta che l’aveva incontrata aveva forse sette anni e ne provò terrore.
Per sfuggire alla madre, Patrizia si era rifugiata sull’albero di fianco alla
casa dei suoi genitori. L’incrocio di tre grossi tronchi, ben più in alto di
lei, era la sua dimora preferita. «Sarebbe meglio non ricordare!», la
stizza e il pudore dopo tanti anni la facevano ancora stare male. Sua mamma non
voleva che tutte le domeniche venissero a pranzo i colleghi di lavoro di papà e
quindi stava a menarla di continuo. Poi, quando giungevano questi odiati
ospiti, la madre si faceva tutta sorrisi e inchini.
Patrizia prese le sue cose, una bambola e la pistola giocattolo del fratello e, senza salutare, «perché non meritavano il saluto», se ne
era andata sul suo albero a mimetizzarsi tra le foglie. Voleva starsene in pace
a pensare cosa fosse quella sensazione di assoluta incomprensione verso il
genere umano adulto.
Fu
in quella occasione che le apparve la prima volta: la città celeste era proprio
sopra la sua testa. Un particolare raggio di
sole filtrando tra due foglie ballerine le aveva fatto alzare lo sguardo.
Dapprima pensò fosse una nuvola passeggera, «strano
però», nonostante il vento, non si muoveva. La vedeva ferma, immobile, a un
centinaio di metri dal suo albero ed era così trasparente che nessuno sembrava
vederla. Ma la città celeste conteneva le coscienze e anche la sua era collegata
a essa.
Scacciò l’ipotesi che fosse un fantasma: non lo era affatto, era
piuttosto un “luogo” e, al contempo, un groviglio di vizi e virtù che andavano
ammaestrati. Aveva appena scoperto cosa fosse l’ipocrisia, e non le piaceva per
niente.
«Mi verranno a cercare, papà si accorgerà
che la sua unica figlia è sparita di casa!» diceva e allungava le orecchie per
sentire se qualcuno chiamasse il suo nome, o se almeno il fratello si
avvicinasse all'albero.
«Macché, niente.» Ma lei non cedeva e,
ostinata, non voleva scusare quell’ipocrita di sua madre.
«Non si può essere tanto bugiardi!» pensava
Patrizia, che immaginava i suoi cari intenti in risate false e finte moine
davanti agli ospiti che chiacchieravano del “bel tempo”. Invece rimase sola,
sentendosi un po’ stupida, a rimirare la città celeste fino all’ora di pranzo.
Proprio quando ormai non resisteva più alla fame e alla tentazione di
farsi abbindolare dalla possibilità del perdono, la madre comparve soddisfatta:
«Ah,
eccola qua! Vieni a mangiare, perché ti sei messa a giocare da sola? C’è
un’amichetta oggi che è venuta a trovarti, non fare la maleducata, falle vedere
la tua bambola, su!»
Avrebbe voluto estrarre la pistola e sparare quattro colpi in pieno
petto. Prima avrebbe voluto sterminare la famiglia invadente, proprio come
faceva il generale Custer agli indiani alla TV, poi prendersela anche con chi
li aiutava a rendere le sue tranquille giornate un inferno: sua madre,
materializzazione fisica dell'ipocrisia, che a lei appariva il male più
terribile sulla Terra.
Colei che ti insegna a sorridere di fronte a tutti, anche se vorresti
sbranarli. Colei che ti insegna a mostrarsi sempre ossequiosa, ad essere buona con chiunque, a mangiare fino a
ingozzarti, perché è uno sfregio nei confronti di chi non ha niente. Colei che
ti annulla con i suoi consigli, anche se la tua mente ti dice che non ha
affatto ragione. E comunque devi stare
zitta, altrimenti tua madre si adira e non ti parla più per un mese.
Allora non rispondi all’ipocrita, non le parli, tanto non ascolta, non ha
pazienza e non ha tempo per te.
«Ah, eccola la città celeste, ancora ti
vedo!» Continuava a pensare Patrizia.
Eppure nessuno sembrava vederla, anche se era diventata blu, grigia e a
tratti anche nera. Stava posizionata sempre nello stesso punto. Sopra
Patrizia. L'ipocrisia che si era
travasata in lei era diventata ancora più grande e contagiava tutti, proprio
tutti e tutto. Anche il dolore. Il dolore più straziante, quello di avere un
figlio che non potrà mai camminare. Lo stesso dolore che precedentemente, aveva
consumato i suoi anni migliori. Gli anni che i ragazzi e le ragazze passano
all’università a divertirsi con i coetanei, a fare prove dell’amore che verrà,
lei al contrario, dovette trascorrerli frequentando la scuola della
sofferenza.
Avrebbe voluto piangere tutti i giorni, strapparsi i capelli a ciocche
intere e sentirsi strappare le unghie a una a una come facevano i pellerossa.
Invece No. Doveva sorridere.
Apriva la porta di casa, stanca perché non dormiva mai bene la notte, e
sorrideva. Si era tramutata in una perfetta mutante ipocrita anche lei.
«La città celeste era sempre più
consistente, la sua ancora scavava solchi profondi nel terreno e sarebbe stato
difficilissimo farla salpare.» Ma
di essere diventata ipocrita, come della sua presenza nella città celeste, lei
era diventata inconsapevole.
Le
faceva ancora più male vedere come tutti coloro che entravano a casa sua
sorridessero sempre beati come se niente fosse. Ahhhh la rabbia virulenta le
faceva salire una febbre omicida! Che male! Meglio non pensare a quanto odio riesce
ad accumulare l’ipocrisia. Però quel male non serve a niente, distrugge
soltanto, come quello dentro la città celeste.
Lei
sapeva benissimo che chi veniva, prima di entrare, camuffava la faccia e si
stampava un bel sorriso dorato per non farla sentire triste.
Peggio!
Sapeva che quel sorriso avrebbe fatto guadagnare un “paradiso” più
grande a chi andava a trovarla col sorriso più ampio.
Sapere, sapere che la loro aspirazione era
soltanto credere di portarsi a casa un bel fagotto di pace per l’aldilà:
proprio un bel conforto!! Erano lei e
il suo caro bambino che elargivano tanto ben di Dio!
Così
Patrizia s’inchinava al dovere e sorrideva. Educata. Vedeva passare gli anni della
sua vita rinchiusi tra quattro mura, come in un carcere. Ma tanto, cosa lei avrebbe potuto, e cosa
loro avrebbero dovuto fare?
Piangere insieme, magari, anche una volta sola. Sarebbe bastato
condividere la disperazione solo una volta. Per fare rifiorire un fiore già
appassito.
Forse erano davvero più belli i sorrisi di plastica che ritrovava nelle
vecchie foto. Saranno stati veri o stereotipati, che differenza fa?
Quando riguardava le fotografie, erano tutte belle e
sembravano tutti felici. Come non lo erano!
Stava sfogliando un album con le foto da ragazzina, quando ritrovò un
suo quaderno utilizzato per scrivere la storia che le aveva ispirato la città
celeste. Il racconto era ancora fermo alla prima pagina. Cominciò a leggere:
- La città celeste era invisibile, perché
fatta di plasma, quarzi e cristalli liquidi. Tutte sostanze trasparenti ma
insondabili come la materia oscura. Aleggiava sopra i mondi abitati per
recuperare le coscienze e trasferirle da un pianeta all’altro nella vastità
degli universi. Un po’ come un’astronave
per il riciclaggio dei materiali, sorvolava i mondi e riacquistava i codici
delle anime. Dopo avere controllato che fossero efficienti riammetteva gli
spiriti nel circolo della vita perché farli ex-novo era impossibile. Purtroppo
non si sapeva più come produrli mentre reimpostare le loro matrici era
abbastanza semplice. A volte qualche difetto riavviava memorie passate ai
possessori di un centuplicato, ma erano passaggi talmente repentini, tanto che
nessuno aveva avuto seri danni tranne qualche deja-vu ... –
Leggere quelle righe fu per Patrizia un
fortissimo shock: rivisse quel momento quando bambina, appollaiata sull’albero,
poté vedere per la prima volta la città celeste!
Ora
doveva continuare a scrivere quella storia! Sentiva che farlo era, per lei,
assolutamente vitale.
«Riuscirò mai a vederla ripartire quella
maledetta città?»
Ora
Patrizia, mentre scriveva, capiva. Messo nero su bianco su quei fogli sparsi,
con infinita pazienza la scrittura aveva riaperto le sue vecchie ferite,
rimaste sempre arrossate e doloranti, le aveva permesso di metterci i necessari
punti di sutura e di conseguenza le cicatrici adesso stavano iniziando a
guarire. «Ecco come deve tornare a essere la città celeste, ora lo so! Pura,
limpida, come acqua di sorgente, senza tutte quelle sofferenze violente con cui
l’ho riempita negli anni.»
Da questa sua catarsi psichica era rinata una
nuova Patrizia che aveva scoperto quanto amasse scrivere, quanto le facesse
bene, erano storie fantastiche quelle che preferiva, quelle sul futuro, un
futuro costruito con diligenza. Mille portoni le si spalancavano davanti, non
era più chiusa tra le mura di una prigione. Ora poteva sondare i sentimenti di
ognuno, coltivare i suoi e farli germogliare in un nuovo giardino assolato.
Indugiando tra quelle foto aveva provato la sensazione di essere ancora
appesa là, con le cosce a cavalcioni sul tronco più grosso, aspettando che
qualcuno la venisse a cercare, le chiedesse perché fosse lì. Ma adesso aveva
compreso che solo lei poteva scendere da quell’albero, da sola, sulle proprie
gambe. «Più ti guardi dentro, più
comprendi gli altri.»
«Cambiata la prospettiva, come d’incanto, la
città celeste tornò a essere eterea, un prisma, un diamante inconsistente,
quindi … sparì.»
Nessun commento:
Posta un commento