venerdì 6 giugno 2014

La città celeste


LA CITTA’ CELESTE
di
Annalisa Costa
    «Ehi, dico a te, credi davvero di averci pensato solo tu? Guarda che anch’io qualche volta penso di avere una mia visione, di essere un profeta, una che sa dove andremo a finire.
Ma l’aspetto che mi affascina di più, porca miseria, è capire da dove siamo venuti! Se l’anima è immortale, come molti sostengono, allora dove stanno le anime prima di venire sganciate quaggiù? E perché?»
   Patrizia cominciò a scrivere rivolgendosi direttamente al lettore che avrebbe tenuto il suo romanzo tra le mani poi, dopo questa prima frase, si buttò sul letto e cercò di immaginare la città celeste che fin da bambina la perseguitava.  
   La prima volta che l’aveva incontrata aveva forse sette anni e ne provò terrore. Per sfuggire alla madre, Patrizia si era rifugiata sull’albero di fianco alla casa dei suoi genitori. L’incrocio di tre grossi tronchi, ben più in alto di lei, era la sua dimora preferita. «Sarebbe meglio non ricordare!», la stizza e il pudore dopo tanti anni la facevano ancora stare male. Sua mamma non voleva che tutte le domeniche venissero a pranzo i colleghi di lavoro di papà e quindi stava a menarla di continuo. Poi, quando giungevano questi odiati ospiti, la madre si faceva tutta sorrisi e inchini.
   Patrizia prese le sue cose, una bambola e la pistola giocattolo del  fratello e, senza salutare, «perché non meritavano il saluto», se ne era andata sul suo albero a mimetizzarsi tra le foglie. Voleva starsene in pace a pensare cosa fosse quella sensazione di assoluta incomprensione verso il genere umano adulto.
   Fu in quella occasione che le apparve la prima volta: la città celeste era proprio sopra la sua testa. Un particolare raggio di sole filtrando tra due foglie ballerine le aveva fatto alzare lo sguardo. Dapprima pensò fosse una nuvola passeggera, «strano però», nonostante il vento, non si muoveva. La vedeva ferma, immobile, a un centinaio di metri dal suo albero ed era così trasparente che nessuno sembrava vederla. Ma la città celeste conteneva le coscienze e anche la sua era collegata a essa.
   Scacciò l’ipotesi che fosse un fantasma: non lo era affatto, era piuttosto un “luogo” e, al contempo, un groviglio di vizi e virtù che andavano ammaestrati. Aveva appena scoperto cosa fosse l’ipocrisia, e non le piaceva per niente.
    «Mi verranno a cercare, papà si accorgerà che la sua unica figlia è sparita di casa!» diceva e allungava le orecchie per sentire se qualcuno chiamasse il suo nome, o se almeno il fratello si avvicinasse all'albero.      
   «Macché, niente.» Ma lei non cedeva e, ostinata, non voleva scusare quell’ipocrita di sua madre.
   «Non si può essere tanto bugiardi!» pensava Patrizia, che immaginava i suoi cari intenti in risate false e finte moine davanti agli ospiti che chiacchieravano del “bel tempo”. Invece rimase sola, sentendosi un po’ stupida, a rimirare la città celeste fino all’ora di pranzo.
   Proprio quando ormai non resisteva più alla fame e alla tentazione di farsi abbindolare dalla possibilità del perdono, la madre comparve soddisfatta:
   «Ah, eccola qua! Vieni a mangiare, perché ti sei messa a giocare da sola? C’è un’amichetta oggi che è venuta a trovarti, non fare la maleducata, falle vedere la tua bambola, su!»
   Avrebbe voluto estrarre la pistola e sparare quattro colpi in pieno petto. Prima avrebbe voluto sterminare la famiglia invadente, proprio come faceva il generale Custer agli indiani alla TV, poi prendersela anche con chi li aiutava a rendere le sue tranquille giornate un inferno: sua madre, materializzazione fisica dell'ipocrisia, che a lei appariva il male più terribile sulla Terra.
   Colei che ti insegna a sorridere di fronte a tutti, anche se vorresti sbranarli. Colei che ti insegna a mostrarsi sempre ossequiosa, ad essere  buona con chiunque, a mangiare fino a ingozzarti, perché è uno sfregio nei confronti di chi non ha niente. Colei che ti annulla con i suoi consigli, anche se la tua mente ti dice che non ha affatto ragione. E comunque devi stare  zitta, altrimenti tua madre si adira e non ti parla più per un mese. Allora non rispondi all’ipocrita, non le parli, tanto non ascolta, non ha pazienza e non ha tempo per te.
   «Ah, eccola la città celeste, ancora ti vedo!» Continuava a pensare Patrizia.
    Eppure nessuno sembrava vederla, anche se era diventata blu, grigia e a tratti anche nera. Stava posizionata sempre nello stesso punto. Sopra Patrizia.  L'ipocrisia che si era travasata in lei era diventata ancora più grande e contagiava tutti, proprio tutti e tutto. Anche il dolore. Il dolore più straziante, quello di avere un figlio che non potrà mai camminare. Lo stesso dolore che precedentemente, aveva consumato i suoi anni migliori. Gli anni che i ragazzi e le ragazze passano all’università a divertirsi con i coetanei, a fare prove dell’amore che verrà, lei al contrario, dovette trascorrerli frequentando la scuola della sofferenza. 
   Avrebbe voluto piangere tutti i giorni, strapparsi i capelli a ciocche intere e sentirsi strappare le unghie a una a una come facevano i pellerossa.
   Invece No. Doveva sorridere.
   Apriva la porta di casa, stanca perché non dormiva mai bene la notte, e sorrideva. Si era tramutata in una perfetta mutante ipocrita anche lei.
   «La città celeste era sempre più consistente, la sua ancora scavava solchi profondi nel terreno e sarebbe stato difficilissimo farla salpare.» Ma di essere diventata ipocrita, come della sua presenza nella città celeste, lei era diventata inconsapevole.
   Le faceva ancora più male vedere come tutti coloro che entravano a casa sua sorridessero sempre beati come se niente fosse. Ahhhh la rabbia virulenta le faceva salire una febbre omicida! Che male! Meglio non pensare a quanto odio riesce ad accumulare l’ipocrisia. Però quel male non serve a niente, distrugge soltanto, come quello dentro la città celeste.
   Lei sapeva benissimo che chi veniva, prima di entrare, camuffava la faccia e si stampava un bel sorriso dorato per non farla sentire triste.
   Peggio!
   Sapeva che quel sorriso avrebbe fatto guadagnare un “paradiso” più grande a chi andava a trovarla col sorriso più ampio.
   Sapere, sapere che la loro aspirazione era soltanto credere di portarsi a casa un bel fagotto di pace per l’aldilà: proprio un bel conforto!!                                    Erano lei e il suo caro bambino che elargivano tanto ben di Dio!
   Così Patrizia s’inchinava al dovere e sorrideva. Educata. Vedeva passare gli anni della sua vita rinchiusi tra quattro mura, come in un carcere.  Ma tanto, cosa lei avrebbe potuto, e cosa loro avrebbero dovuto fare?
   Piangere insieme, magari, anche una volta sola. Sarebbe bastato condividere la disperazione solo una volta. Per fare rifiorire un fiore già appassito.
   Forse erano davvero più belli i sorrisi di plastica che ritrovava nelle vecchie foto. Saranno stati veri o stereotipati, che differenza fa?
   Quando  riguardava le fotografie, erano tutte belle e sembravano tutti felici. Come non lo erano!
   Stava sfogliando un album con le foto da ragazzina, quando ritrovò un suo quaderno utilizzato per scrivere la storia che le aveva ispirato la città celeste. Il racconto era ancora fermo alla prima pagina. Cominciò a leggere:
-    La città celeste era invisibile, perché fatta di plasma, quarzi e cristalli liquidi. Tutte sostanze trasparenti ma insondabili come la materia oscura. Aleggiava sopra i mondi abitati per recuperare le coscienze e trasferirle da un pianeta all’altro nella vastità degli universi.  Un po’ come un’astronave per il riciclaggio dei materiali, sorvolava i mondi e riacquistava i codici delle anime. Dopo avere controllato che fossero efficienti riammetteva gli spiriti nel circolo della vita perché farli ex-novo era impossibile. Purtroppo non si sapeva più come produrli mentre reimpostare le loro matrici era abbastanza semplice. A volte qualche difetto riavviava memorie passate ai possessori di un centuplicato, ma erano passaggi talmente repentini, tanto che nessuno aveva avuto seri danni tranne qualche deja-vu ... –   
   Leggere quelle righe fu per Patrizia un fortissimo shock: rivisse quel momento quando bambina, appollaiata sull’albero, poté vedere per la prima volta la città celeste!
   Ora doveva continuare a scrivere quella storia! Sentiva che farlo era, per lei, assolutamente vitale.
   «Riuscirò mai a vederla ripartire quella maledetta città?»
   Ora Patrizia, mentre scriveva, capiva. Messo nero su bianco su quei fogli sparsi, con infinita pazienza la scrittura aveva riaperto le sue vecchie ferite, rimaste sempre arrossate e doloranti, le aveva permesso di metterci i necessari punti di sutura e di conseguenza le cicatrici adesso stavano iniziando a guarire. «Ecco come deve tornare a essere la città celeste, ora lo so! Pura, limpida, come acqua di sorgente, senza tutte quelle sofferenze violente con cui l’ho riempita negli anni.»
   Da questa sua catarsi psichica era rinata una nuova Patrizia che aveva scoperto quanto amasse scrivere, quanto le facesse bene, erano storie fantastiche quelle che preferiva, quelle sul futuro, un futuro costruito con diligenza. Mille portoni le si spalancavano davanti, non era più chiusa tra le mura di una prigione. Ora poteva sondare i sentimenti di ognuno, coltivare i suoi e farli germogliare in un nuovo giardino assolato.
   Indugiando tra quelle foto aveva provato la sensazione di essere ancora appesa là, con le cosce a cavalcioni sul tronco più grosso, aspettando che qualcuno la venisse a cercare, le chiedesse perché fosse lì. Ma adesso aveva compreso che solo lei poteva scendere da quell’albero, da sola, sulle proprie gambe. «Più ti guardi dentro, più comprendi gli altri.»
   «Cambiata la prospettiva, come d’incanto, la città celeste tornò a essere eterea, un prisma, un diamante inconsistente, quindi … sparì.»



 



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