Di
Andrea Taffi
2° classificato
Terzo si accertò che la capanna resistesse all’acqua e ai
cinghiali, poi caricò i sacchi di carbone sul mulo e tornò in paese. Era quasi
mezzogiorno, quando arrivò. Il capitano Mauri l'aspettava per la firma dei
documenti. Depositò i sacchi nel magazzino e raggiunse l’ufficiale.
Terzo era carbonaio e lavorava per l’esercito. Per questo
l'avevano esentato dal fronte. Eppure, anche se non sparava al nemico, pure lui
era un soldato.
«Siete trasferito» gli disse Mauri senza nemmeno
guardarlo. E dopo un breve silenzio aggiunse: «In Sardegna».
Hitler credeva che gli alleati sarebbero sbarcati in
Sardegna. Mussolini aveva deciso, allora, di aumentare le difese dell’isola.
Iniziò dalle materie prime e vi mandò chi faceva il carbone. Ma questo il
capitano Mauri non lo disse a Terzo. E lui non chiese nulla. Ubbidì e basta.
Sbarcò a Cagliari lo stesso giorno dell'arrivo di
Mussolini in Sardegna. Al porto gli dissero che sarebbe dovuto andare
Fluminimaggiore, non in paese, però. Insieme ad altri carbonai, tutti toscani
come lui, avrebbe lavorato e vissuto nel bosco, in un villaggio costruito
apposta.
Un anno dopo
Mussolini decise di rimandare quei carbonai a casa, Hitler si era sbagliato.
Eppure gli alleati in Sardegna erano arrivati. Dal cielo, però, non dal mare. E
Terzo lo capì a Cagliari, quando la vide distrutta dalle bombe.
«Di navi non ne partiranno per un po’» gli disse il
tenente Melfi.
«Ma io devo ritornare» disse Terzo, mostrandogli l’ordine
del capitano Mauri.
Il tenente lo lesse.
«Potete unirvi agli sfollati» gli disse. «Domani parte
una corriera per Sassari. Avvertirò il capitano Andolfi; forse vi aiuterà a
raggiungere Olbia. Da lì potete imbarcarvi per il continente».
«Sfollati, dite? Ma io…».
«Non vi preoccupate» lo interruppe il tenente porgendogli
l’ordine.
«Fatevi trovare qui domani, all’una».
L'avvocato Salis non riusciva proprio a farsene una
ragione. Quell'auto, quella Balilla nuova, gli era stata requisita
dall'esercito. Aveva un bel dire il capitano Andolfi che gli alleati sarebbero
presto sbarcati in Sardegna, e che tutti i mezzi a motore erano necessari per
la difesa dell’isola. Lui l’amore per la patria ce l’aveva; ma qui la patria
non c’entrava per niente. Non capiva come la sua Balilla potesse servire a
difendere la Sardegna dal nemico. Forse trasportando il capitano Andolfi in
giro per Sassari? Sì. Perché in fondo - pensava Salis - era solo per quello che
l’esercito gli aveva preso la Balilla.
«Ma avvocato, l’auto vi è stata solo requisita. E alla
fine della guerra vi verrà restituita» gli diceva sempre il capitano Andolfi.
Eppure Salis non si persuadeva.
«Quante possibilità ha un soldato di non essere ucciso in
guerra?» ribatteva ogni volta.
«Ma che dite, avvocato? Stiamo parlando di un’auto, non
di un uomo» sbottava il capitano.
Salis aveva anche pensato di parlare col federale, Ma poi
ci aveva ripensato. Con i fascisti non voleva mischiarsi di più di quello che
le circostanze gli imponevano. Aveva, sì, la tessera del partito, ma era solo perché suo
suocero, avvocato anche lui, era un socialista e per questo le camicie nere gli
avevano impedito di esercitare. Salis ne aveva sposato la figlia, e aveva
dovuto obbligarsi a prendere la tessera del fascio, unico modo per poter
gestire lo studio del suocero. Tutti a Sassari, fascisti compresi, lo sapevano,
ma, garbatamente, facevano finta di niente. L’avvocato Salis, che era un
fascista solo per finta, non poteva certo andare a chiedere favori ai camerati,
nemmeno quando si trattava di salvare la sua bella Balilla nera.
Non gli rimaneva, allora, che una sola cosa da fare:
seguirla in giro per Sassari. Le volte che era libero lo faceva personalmente.
Quando, invece, doveva lavorare, incaricava il ragazzo di studio di pedinarla
per lui.
«Adesso è ferma, all’Emiciclo» disse il praticante.
«E che fa?» chiese Salis.
«Non sono potuto rimanere» disse il ragazzo. «Ci sono
soldati dappertutto e il capitano Andolfi non fa entrare nessuno nella piazza».
«Come sarebbe a dire?».
Il praticante alzò le spalle.
«Ascolta» disse Salis. «Il signor Asproni sarà qui tra
una mezz’ora. Io esco. Digli di aspettare».
E senza aggiungere altro uscì.
Un cordone di soldati impediva l’ingresso all’Emiciclo
Garibaldi. Il capitano Andolfi era vicino alla Balilla e passeggiava avanti e
indietro. Un momento guardava in direzione dei giardini e un momento dopo verso
Corso Regina Margherita. Nella piazza vi erano tre corriere vuote e nei
giardini altri soldati controllavano un gruppo di persone, per lo più donne e
bambini.
«Devo subito vedere il capitano!» urlò Salis al soldato
che lo tratteneva.
Il capitano Andolfi si voltò, e subito alzò gli occhi al
cielo. Sentendo la corriera arrivare in Corso Regina Margherita, attese che si
fermasse all’Emiciclo e poi, come aveva fatto con le altre, controllò i
passeggeri che scendevano nella piazza.
«Capitano, che sta succedendo?».
Andolfì si voltò di nuovo. Salis ispezionava la Balilla.
«Avvocato che ci fate qui?».
Rimasero a fissarsi per un istante, poi un uomo si
avvicinò ai due.
«Il capitano Andolfi?» chiese lo sconosciuto.
L’ufficiale si voltò e Terzo gli porse subito il suo
ordine di rientro.
«Siete quel carbonaio di cui mi ha parlato Melfi, non è
così?» chiese il capitano appena letto l’ordine.
«Sì, sono io».
Il capitano lo squadrò.
«Temo che dobbiate arrangiarvi da solo. Non credo di
potervi aiutare a raggiungere Olbia» disse riconsegnandogli l’ordine.
«Dovete andare a Olbia?» si intromise Salis. Il capitano
alzò di nuovo gli occhi al cielo.
«Sì. Un tenente, a Cagliari, mi ha detto che da qui avrei
potuto raggiungere Olbia, e poi imbarcarmi per Livorno».
«Ho sentito che siete un carbonaio» disse Salis.
«Sì. Faccio il carbone per l’esercito. Un anno fa sono
stato trasferito a Flunimimaggiore».
«Dunque, anche voi siete un soldato, non è così?» domandò
l’avvocato. Andolfi scosse il capo. «E voi, capitano, abbandonate un soldato?».
«Che cosa volete, avvocato, che lo accompagni ad Olbia?»
chiese Andolfi sprezzante.
«Perché no? Invece di starvene a Sassari con la mia
auto…».
«Adesso basta!» lo interruppe il capitano. «Ho già perso
anche troppo tempo. Voi - disse rivolto a Terzo - fatemi la cortesia di
raggiungere gli altri ai giardini e aspettatemi lì. E voi, avvocato,
andatevene. Vi ho già detto che non potete stare qua».
Terzo ubbidì, mischiandosi agli sfollati.
«Buona sera, capitano» disse Salis, avviandosi al suo
studio.
Andolfi lo ignorò.
Salis pensava a quel carbonaio. Ne aveva parlato a casa,
con la moglie, tacendole, però, quello a cui ora, nel rifugio antiaereo dove
era corso al suono della sirena, stava pensando. Quella guerra aveva requisito
una cosa a entrambi. Al carbonaio il suo mestiere, a lui la sua auto. Il
carbonaio voleva tornare a casa; lui voleva riavere la sua Balilla. E in tutto
questo sentiva che c’era qualcosa di nobile; la nobiltà di chi deve chinare il
capo, consapevole dei destini infiniti di una guerra.
L’allarme aereo cessò. Fuori, in Piazza Plebiscito, tutti
quanti guardarono il cielo e subito capirono che quello non era stato un
allarme come gli altri. Un fumo nero saliva lento da dietro le case del centro
storico. Sembrava lontano, in mare, ma fu soltanto una sensazione, una breve
illusione. Un senso di disperazione subito li prese e spinse Salis e gli altri
in direzione di quel fumo. Raggiunta Piazza Sant’Antonio, tutti si portarono le
mani alla bocca, e non solo perché l’odore di fumo misto a terra si era fatto
insopportabile. Sassari era stata bombardata; la stazione era stata colpita.
Una delle due scalinate che sfociavano nel piazzale era distrutta. L’edificio aveva
il lato destro della sua facciata annerito e sfigurato da profondi segni di
schegge. Nel piazzale, tra le macerie, qualcosa bruciava. Tra la confusione dei
soldati che entravano e uscivano dalla stazione, Salis vide il capitano
Andolfi. Era sporco di terra e indicava a due portantini un punto del piazzale.
Salis corse verso di lui, ma inciampò in qualcosa. Guardò per terra. Era la
targa di un’auto. La raccolse e lesse i numeri.
«La Balilla» sussurrò senza forze.
Quando rialzò lo sguardo, il capitano gli era davanti. I
suoi occhi erano arrossati e lacrimavano. Guardò la targa che Salis teneva
ancora in mano e poi lo fissò. La sirena di un’ambulanza prese a suonare
nell’aria.
«Il vostro soldato» disse il capitano «È morto. L’ha
ucciso la bomba». Salis lo fissava, in silenzio. D’improvviso Andolfi gli
strappò la targa dalle mani e la gettò via.
«Avete capito quello che ho detto?» urlò.
«Il carbonaio toscano. È morto?» rispose Salis con un
filo di voce.
«Doveva partire per Olbia, oggi, col treno» continuò il
capitano. «Ma la città è stata bombardata e non si può raggiungere, chissà per
quanto. Allora, lui mi ha fatto chiamare. Voleva tornare a casa, gli
interessava solo quello».
«Capitano!» urlò un portantino dal piazzale. Andolfi si
voltò.
«Portatelo via!» gridò.
«E voi? Che gli avete detto?» chiese Salis.
«Gli ho ordinato di non muoversi da Sassari» disse
Andolfi voltandosi. «Ma è stato inutile. Non era più un soldato. Era stufo di
ubbidire in silenzio. Sono riuscito a trattenerlo per un po’, ma quando è suonato
l’allarme è scappato».
«Era lui quello che hanno portato via?».
«Sì. La bomba ha colpito la vostra auto. Il carbonaio
vedendola parcheggiata nel piazzale della stazione deve aver pensato che con
quella poteva raggiungere Olbia».
«Come fate a dirlo?».
«Non posso, è vero. Ma sono convinto lo stesso che sia
andata così. Gli aerei volavano a bassa quota. Uno di loro deve aver visto
l’auto muoversi e ha sganciato la bomba. Il vostro soldato voleva solo tornare
a casa. E invece è diventato un eroe».
«Che dite?».
«Se non fosse stato per lui, quella bomba sarebbe stata
sganciata chissà dove in città e gli altri aerei avrebbero fatto lo stesso. Il
carbonaio e la vostra auto hanno salvato la città».
La folla che si era radunata iniziò a gioire: Sassari era
salva. Salis guardò il fumo e tornò ai suoi pensieri nel rifugio. Si era
sbagliato: non c’era niente di nobile in tutto quello.
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