venerdì 6 giugno 2014

Gli ultimi giorni di novembre


Gli ultimi giorni di novembre
Di
Giorgio Noli

L’isola di Santa Rita ha spesso un cappello di nuvole schiacciato sulla cresta, a farla sembrare più alta, più difficilmente sormontabile, almeno a guardarla dalla terrazza di Vittorio, dove proprio in questi giorni inaspettata fiorisce qualche fresia.
Come grattassero un penoso residuo di incredulità, le dita si ostinano ad assaggiare il disegno delle gomme della carrozzina che la sorte gli ha di recente riservato. Nelle giornate livide, se non si vede Santa Rita, Vittorio si accontenta di osservare ciò che si scorge del porto industriale oltre il viadotto, oppure, più in qua, le ceppaie del terreno confinante, incantate nella breve attesa di nuove ruspe che seguiteranno a fare di questa sfinita resistenza della campagna l’ultima zampata della città. A volte, senza vederlo, si attarda ad ascoltare un grosso cane che abbaia costretto in un piccolo cortile due o tre case più in là: ha un ritmo buffo, sempre le stesse note, così ogni giorno Vittorio immagina per lui un nome diverso.
Prima di venirsene a svernare nella solitudine di questa casa che oramai gli zii usano solo ad agosto – ma quasi sembrano estivi questi ultimi giorni di novembre –, ha salutato per sempre i colleghi del centro commerciale: non si può fare il magazziniere su una sedia a rotelle. Suo padre, dall’altra parte della regione, teme possa compiere una pazzia, o che a posta abbia scelto questo esilio. Ah, cosa darebbe per riavere suo figlio, fosse anche per un giorno, uno soltanto, in quella cameretta lasciata ai fantasmi, dove una volta c’era il poster di Baggio che calcia una punizione.
A parte il solito cappello di Santa Rita e qualche sfilacciatura di zucchero filato, è una bellissima domenica mattina, di quelle che ci si sente in gabbia a stare a casa. Così anche Vittorio vuol farsi un giro: si infila le scarpe da jogging che acquistò un paio d’ore prima dell’incidente e non può fare a meno di pensare che non riuscirà mai a consumarle. Eppure lo fa sentire più vivo quel cielo aperto, come nei mattini di festa che fino a pochi mesi fa passava a correre per la città assopita o ad avventurarsi in montagna a fotografare un gheppio, la forma di una roccia, un colore. Uscire da solo, adesso, è tutta un’altra avventura, ma saperlo non lo ferma. Scendendo per il viale che collega la zona nuova al centro non si contano le prove di esclusione; ecco i soliti marciapiedi troppo alti o troppo stretti, pendenze longitudinali fuori norma, tratti sconnessi, cestini piegati, lampioni a base larga, armadietti delle centraline telefoniche o dell’elettricità che riducono lo spazio ben al di sotto dei novanta centimetri. Quando non può cavarsela con una manovra azzardata gli tocca sperare nella cortesia dei passanti: alla sua libertà toccano misure troppo anguste, inversamente proporzionali alla distanza del mondo che cammina dal suo problema. E poi la merda di cane, le civette  davanti alle edicole, le lavagnette accanto all’ingresso delle trattorie, le auto, le tante auto parcheggiate sul marciapiede. Per passare, deve battere qualche colpo sulla carrozzeria sperando che il proprietario lo senta e si sbrighi a togliere il disturbo.
All’ennesima sosta forzata, cerca di aggirare la Smart scendendo dal gradino, che in quel punto gli pare abbastanza basso ma non lo è, così la carrozzina si rovescia e lui picchia la tempia contro una gomma. Le braccia ancora forti, da magazziniere, gli permettono di raddrizzarsi quanto basta per afferrare un sasso e scagliare la rabbia contro l’ostacolo: non sapeva di avere dentro tutta quella violenza, quasi non si accorge di ciò che sta facendo se non al quinto, al sesto colpo, quando per un attimo pensa di non voler fare altro nella vita che distruggere le auto di questi barbari, e quando la portiera ha già bisogno di un buon carrozziere. Soltanto a quel punto, allarmato dal rumore, il proprietario esce di corsa da un café: è un giovane biondastro, per l’aspetto sembra appena sceso dal palco di un concerto pop, per lo sguardo, dalla luna. «Sposta questo cesso di macchina» gli dice Vittorio con lo scarso fiato che gli resta, «o ti sfondo pure il cranio». Intorno si è raccolto un anello di curiosi, lo rompe avanzandosi una tipa piccoletta ma robusta, decisa: «Stai perdendo sangue» dice a Vittorio, «lasciami fare», e comincia a tamponargli la tempia con un fazzoletto. «È sua la macchina, vero? Senta, prenda questo» ordina poi porgendo al biondastro un biglietto da visita: «Mio padre fa il carrozziere... nella zona industriale. Ci vada domattina, lo avviso io, non le farà pagare nulla». Il ragazzo non fa in tempo a rispondere che lei già impugna i manici della carrozzina e si porta via Vittorio. Subito dietro l’angolo, lo aiuta a salire sulla sua monovolume, senza incertezze chiude la sedia e la carica nel bagagliaio.
Chi sei? Da dove sbuchi? Dove mi stai portando? Vorrebbe chiederle lui, ma preferisce tacere mentre osserva la città da un punto di vista nuovo, quello di un’auto che veloce la attraversa. In pochi minuti percorrono Corso Montale e altre strade che dalla sua carrozzina sembravano infinite. Accolti da una grande agave, entrano nel cortile di una villetta costruita senza risparmio di granito ai margini di un quartiere residenziale e a quel punto lei scuce una risata: «Chissà che faccia farà quello lì appena il carrozziere gli dirà che non ha figlie o qualcosa del genere... Scusa, non mi sono neppure presentata, io sono Nadia».
Più che dalla vetrata le cui tende glicine non nascondono il giardino, il soggiorno sembra illuminato da una grande foto alla parete, il primo piano in bianco e nero di una giovane donna al mare: sorride al suo cappello chiaro nell’attimo in cui il vento glielo prende. «Era mia madre... Peccato, non le somiglio granché» si schernisce la ragazza mentre medica la tempia del suo ospite. «Fai l'infermiera?» chiede poi Vittorio, forse per distrarsi dalla bellezza di quel ritratto. «Macché, mi occupo di informatica» fa lei prima di gettare una voce la cui ampiezza suggerisce le dimensioni dell’abitazione: «Babbo!? Babbo!?» chiama forte, «Sei impegnato?», ma nessuno risponde. Così attraversano un corridoio, Nadia apre la porta in un ambiente buio: sulla parete opposta si staglia uno schermo gigante, saranno forse cento pollici, c’è la foto panoramica di una strada ripresa da altezza d'uomo. Sembra di essere lì. Appena il puntatore pizzica al centro la prospettiva ti ingoia prima di mostrarti il tratto più in là. Nella grande stanza, in controluce, Vittorio riesce a indovinare la sagoma di un uomo in carrozzina soltanto allorché quello si volta:
«Scusate, ma voglio finire entro oggi il giro di Manaus».
«Ci mancherebbe... Buona giornata» dice Vittorio, e Nadia, rassegnata, richiude:
«Sono mesi che non esce di casa. Sempre in questa specie di cinema a smanettare su Google Street View: secondo lui le città è meglio scoprirle così. Capisci perché mi ha colpito il tuo coraggio di andartene in giro da solo?».
Quando poi lei lo riaccompagna a casa, prima di salutarlo scrive un bigliettino e glielo dà: «Stavolta non è una fregatura» sorride, «c’è il mio numero... Se hai bisogno, di qualsiasi cosa».
Il pomeriggio Vittorio lo passa a guardarsi le partite e a leggere Nati due volte, di Pontiggia. Ma è distratto, più del solito, perfino dimentica di rispondere ai messaggi del padre. La sera proprio non ce la fa a prendere sonno, né lo aiuta il chiarore di luna che passa dalle imposte difettose. Ripensa all’accesso d’ira avuto nel viale, lo atterrisce l’incapacità di controllarsi, aver assaporato la voglia di distruggere, voler tornare giù e sfondarne altre dieci. Ma quando finalmente si addormenta è un altro l’incubo che lo scuote. La sagoma nera di un uomo in carrozzina, un anonimo pittogramma, sprofonda tra enormi denti d’asfalto in una buca, una bocca spalancata in mezzo a una strada del centro, e urlando invano contro il silenzio – come ogni giorno invano abbaia quel cane – cade, cade giù in fondo a un buio che può masticarlo, cade finché lo sforzo di agitare le braccia per provare ad abbrancarsi a qualcosa non lo salva strappandolo al sonno.
In terrazza, dove il fresco frizzante lo rilassa e gli stimola il pensiero, spera che Manaus cominci presto ad abbaiare – per svegliare chissà chi da chissà cosa – e attende che l’alba indori l’isola di Santa Rita. Rita da Cascia, la santa dell’impossibile; forse però non è impossibile una città civile, dove a nessuno sia negato il diritto di farsi un giro da solo. È a questo che pensa mentre avvia il tablet e pare decidere, come faceva Baggio, dove piazzare il pallone oltre la barriera. Ma lo sa perfettamente che a lui servirà ben altro talento per superare ben altre barriere. Così oggi chiamerà Nadia, proverà a coinvolgere lei e suo padre nel progetto di una sorta di Street View fatta da e per chi va su una sedia a rotelle, una mappatura dei marciapiedi davvero percorribili in autonomia. Ci vorranno mesi, anni, forse una vita, ma non conta, per stare in piedie attraversare gli inverni – a volte conta avere un progetto. E questo progetto, immagina, arriverà ovunque ci sia qualcuno disposto a installare sulla propria carrozzina una fotocamera multiobiettivo e andarsene a documentare, documentare, documentare per creare una grande risorsa collettiva, aperta, capace, tra l’altro, di attrarre nuovi visitatori nelle città, nelle strade più civilmente organizzate. Si sente un po’ più pronto, adesso.

Allora compone il numero scritto sul bigliettino, e mentre ascolta il segnale della linea libera scruta il profilo dell’isola: stamattina ha perduto il cappello, e Vittorio può immaginare, può almeno immaginare una carrozzina che ne percorre la cresta.

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