venerdì 6 giugno 2014

Mat e Teg


MAT  E  TEG
di
Laura Piredda

Quando il sole sorgeva, ancora troppa brina teneva Teg fredda e bagnata. Dopo un paio d’ore si sarebbe potuta stiracchiare meglio.
Quando avrebbe sentito il calore arrivare dal cielo scaldarla pian piano, e quando dal basso i rumori del mercato le avrebbero ricordato quale giorno della settimana fosse.
Era sempre la prima a svegliarsi, fra tutte. La posizione ad est la avvantaggiava, e comunque non le dispiaceva essere mattiniera. Aveva un gusto sopraffino per le osservazioni minuziose. Diceva sempre che non ci sarebbe stata nessuna gioia ad avere quella posizione elevata in pieno centro se non per approfittare per cogliere tutti quei particolari unici che nessun altro vedeva.
Il primo gabbiano che arriva per dissetarsi sul bordo della fontana giù nella piazza.
Il primo gatto che salta fuori dalle travi alla base del palazzo. Il primo di tutta quella cucciolata infinita, nata e cresciuta lì sotto, al riparo delle assi del cantiere, abbandonate lì ormai da anni.
Il primo furgoncino arrivato per montare la tenda ed esporre la merce …
Mat si svegliava sempre una buona mezz’ora dopo di lei. Nonostante il sole lo colpisse quasi allo stesso momento, era più riparato e riusciva a sonnecchiare ancora, mentre Teg  già salutava il falchetto che usciva in cerca di cibo dal buco sul tetto, proprio accanto a lei.
“Sei sveglia da molto?”
“Da un po’. Stamattina prima del solito, non so se mi abbia svegliata il freddo, o il primissimo caldo.”
A lui bastò un’occhiata dal basso per vedere che era strana. Non che di solito la mattina i saluti fossero molto più calorosi, ma oggi,il tono della voce di Teg era spento, malinconico. Sembrava dicesse ogni cosa pensando ad altro, come se un cruccio notturno o un brutto sogno le fossero rimasti appesi addosso al risveglio.
“Cos’hai? “
“Niente. Mi sono svegliata e ho visto il falchetto che usciva. Pensavo a come farebbe se dovessero aggiustarci, dovrebbe trovarsi un’altra uscita dal solaio, o un altro nido.”
Mat restò in silenzio per qualche istante.
“Pensi a cosa succederebbe a lui o a te?”
 Teg evitava di guardarlo, se avesse potuto gli avrebbe dato volentieri le spalle .
“Sei troppo ansiosa, te l’ho detto tante volte, siamo antichi, non possono buttarci. Valiamo un sacco di soldi, al massimo ci rimettono a posto. Ci tirano fuori, ci danno una bella lucidata e poi ci fanno tornare. Non fare la paranoica!”
Lei aveva guardato per tutto il tempo il buco alla sua destra, tanto vicino che poteva sporgersi e vederci dentro. Il sottotetto era un arabesco di ragnatele, muffa, e, a quell’ora, di brina non ancora sciolta.
Uno spettacolo splendido e straziante. La rabbia le germogliava da anni in corpo, e in momenti come quello poteva sentirla quasi sbocciare come in un esplosione.
“Non sono paranoica, ho solo buona memoria! Te la ricordi quella mattina? Eri tu a dire che non sarebbe mai successo nulla, ti abbiamo dato retta, ci siamo calmati insieme, ascoltando te! Ti abbiamo creduto tutti, dalla vite della prima grondaia all’ultima pietra della facciata. Eravamo tutte impreparate quando è arrivata la botta!”
Mat aveva portato gli occhi al cielo in una smorfia di esasperazione che parlava da sola.
“Ancora con questa storia! Sono passati anni, me lo vuoi rinfacciare ancora per molto? Ovvio che quando lo dicevo ero convinto, siamo un palazzo d’epoca ….”
“Sì, lo so! Siamo un palazzo d’epoca, non una fabbrica d’armi, non siamo un obiettivo sensibile. Nessuno bombarderebbe mai qui, vedrete che non succederà niente, io dormo tranquillo tutte le notti … Ce lo avrai ripetuto almeno tre volte al giorno per un mese intero. E poi? Mi sono voltata e metà delle mie compagne non c’era più. Andate. E ancora adesso, certe volte, quando guardo quel buco mi chiedo dove siano finite. Quelle che sono andate in frantumi, quelle che sono finite giù nella piazza a mischiarsi con le altre macerie, portate via dalle ruspe, quelle che hanno riciclato per aggiustare altri tetti …”
Lui stava in silenzio durante quegli sfoghi. Non era certo la prima volta. La conosceva da secoli, quasi cinque secoli, e sapeva che quando era così agitata non era il caso di interromperla.
E poi d’altro canto aveva ragione lei, cosa poteva ribattere?  Si era sentito già abbastanza in colpa per anni. Dopo settimane passate a sfottere tutti quelli che si preoccupavano dei bombardamenti, aveva visto anche lui compagni e familiari cadere giù, crollare e andare in mille pezzi sotto i suoi occhi. Non aveva detto più niente fino alla fine. Fino a quando il fischio delle bombe e i rombi degli aerei avevano lasciato posto solo alle pale degli elicotteri della Croce Rossa. Solo allora aveva potuto iniziare a piangere, con calma e ordinatamente.
Era stato l’unico, o comunque uno dei pochi ad aver mantenuto la calma. Gli altri, soprattutto le tegole sul lato del tetto più esposto, avevano gridato per tutto il tempo di quel bombardamento. Ancora gli sembrava di sentirle, quelle urla. Gridavano forte, quasi quanto le persone dentro il palazzo e nella piazza, fuori, sotto, chi era uscito a prendere aria, chi era andato a far provviste, chi ad aiutare un vicino, o qualcun’altro.
Poi, la calma dopo la tempesta era arrivata di colpo. C’era la neve sui viali, sulla piazza, e sul tetto. Non era più la pennellata  bianca perfetta che lo copriva tutto fino all’inverno dell’anno prima. C’era quel buco nero al centro, come una bocca spalancata che inghiottiva fiocchi, pioggia, grandine, tutto.
 Il loro bel palazzo d’epoca, lì da secoli, che aveva resistito a bufere, venti e battaglie per cinquecento anni, adesso era sfigurato, mutilato di parte della facciata, mentre uno sfregio sul tetto lo aveva trasformato in una gola che inghiottiva qualsiasi cosa cadesse dal cielo.
“Teg, non ci abbatteranno, e non perché siamo un palazzo d’epoca. Non ci abbatteranno perché hanno bisogno di ricordarsi cos’è successo. Siamo un promemoria che li atterrisce ogni volta che ci guardano. Li facciamo vergognare, di essere stati ingenui e spietati. Di aver pensato che sarebbe successo solo agli altri, che sarebbe stato giusto così, solo dall’altra parte della barricata. Li spaventiamo, ogni volta che uno di loro passa qui davanti ci guarda e si volta subito, perché il pensiero che possa succedere ancora lo terrorizza. Non ci butteranno giù per lo stesso motivo per cui lasciano i buchi di mitraglia nelle altre facciate. Hanno bisogno di ricordare a sé stessi quanto è stato brutto. Perché il giorno in cui dovessero dimenticarlo, sarebbe la fine.”
Lei adesso lo guardava fisso, con lo stesso sguardo speranzoso che aveva in viso quando lo aveva ascoltato quel giorno. Poi si voltò verso il buco. Il falchetto tornava verso il nido …



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