MAT E TEG
di
Laura Piredda
Quando
il sole sorgeva, ancora troppa brina teneva Teg fredda e bagnata. Dopo un paio
d’ore si sarebbe potuta stiracchiare meglio.
Quando avrebbe sentito il calore
arrivare dal cielo scaldarla pian piano, e quando dal basso i rumori del mercato
le avrebbero ricordato quale giorno della settimana fosse.
Era
sempre la prima a svegliarsi, fra tutte. La posizione ad est la avvantaggiava,
e comunque non le dispiaceva essere mattiniera. Aveva un gusto sopraffino per
le osservazioni minuziose. Diceva sempre che non ci sarebbe stata nessuna gioia
ad avere quella posizione elevata in pieno centro se non per approfittare per
cogliere tutti quei particolari unici che nessun altro vedeva.
Il
primo gabbiano che arriva per dissetarsi sul bordo della fontana giù nella
piazza.
Il
primo gatto che salta fuori dalle travi alla base del palazzo. Il primo di
tutta quella cucciolata infinita, nata e cresciuta lì sotto, al riparo delle
assi del cantiere, abbandonate lì ormai da anni.
Il
primo furgoncino arrivato per montare la tenda ed esporre la merce …
Mat
si svegliava sempre una buona mezz’ora dopo di lei. Nonostante il sole lo
colpisse quasi allo stesso momento, era più riparato e riusciva a sonnecchiare
ancora, mentre Teg già salutava il
falchetto che usciva in cerca di cibo dal buco sul tetto, proprio accanto a lei.
“Sei
sveglia da molto?”
“Da
un po’. Stamattina prima del solito, non so se mi abbia svegliata il freddo, o
il primissimo caldo.”
A
lui bastò un’occhiata dal basso per vedere che era strana. Non che di solito la
mattina i saluti fossero molto più calorosi, ma oggi,il tono della voce di Teg
era spento, malinconico. Sembrava dicesse ogni cosa pensando ad altro, come se
un cruccio notturno o un brutto sogno le fossero rimasti appesi addosso al
risveglio.
“Cos’hai?
“
“Niente.
Mi sono svegliata e ho visto il falchetto che usciva. Pensavo a come farebbe se
dovessero aggiustarci, dovrebbe trovarsi un’altra uscita dal solaio, o un altro
nido.”
Mat
restò in silenzio per qualche istante.
“Pensi
a cosa succederebbe a lui o a te?”
Teg evitava di guardarlo, se avesse potuto gli
avrebbe dato volentieri le spalle .
“Sei
troppo ansiosa, te l’ho detto tante volte, siamo antichi, non possono buttarci.
Valiamo un sacco di soldi, al massimo ci rimettono a posto. Ci tirano fuori, ci
danno una bella lucidata e poi ci fanno tornare. Non fare la paranoica!”
Lei aveva
guardato per tutto il tempo il buco alla sua destra, tanto vicino che poteva
sporgersi e vederci dentro. Il sottotetto era un arabesco di ragnatele, muffa,
e, a quell’ora, di brina non ancora sciolta.
Uno
spettacolo splendido e straziante. La rabbia le germogliava da anni in corpo, e
in momenti come quello poteva sentirla quasi sbocciare come in un esplosione.
“Non
sono paranoica, ho solo buona memoria! Te la ricordi quella mattina? Eri tu a
dire che non sarebbe mai successo nulla, ti abbiamo dato retta, ci siamo calmati
insieme, ascoltando te! Ti abbiamo creduto tutti, dalla vite della prima
grondaia all’ultima pietra della facciata. Eravamo tutte impreparate quando è
arrivata la botta!”
Mat
aveva portato gli occhi al cielo in una smorfia di esasperazione che parlava da
sola.
“Ancora
con questa storia! Sono passati anni, me lo vuoi rinfacciare ancora per molto?
Ovvio che quando lo dicevo ero convinto, siamo un palazzo d’epoca ….”
“Sì,
lo so! Siamo un palazzo d’epoca, non una
fabbrica d’armi, non siamo un obiettivo sensibile. Nessuno bombarderebbe mai
qui, vedrete che non succederà niente, io dormo tranquillo tutte le notti …
Ce lo avrai ripetuto almeno tre volte al giorno per un mese intero. E poi? Mi
sono voltata e metà delle mie compagne non c’era più. Andate. E ancora adesso,
certe volte, quando guardo quel buco mi chiedo dove siano finite. Quelle che
sono andate in frantumi, quelle che sono finite giù nella piazza a mischiarsi
con le altre macerie, portate via dalle ruspe, quelle che hanno riciclato per
aggiustare altri tetti …”
Lui
stava in silenzio durante quegli sfoghi. Non era certo la prima volta. La
conosceva da secoli, quasi cinque secoli, e sapeva che quando era così agitata
non era il caso di interromperla.
E
poi d’altro canto aveva ragione lei, cosa poteva ribattere? Si era sentito già abbastanza in colpa per
anni. Dopo settimane passate a sfottere tutti quelli che si preoccupavano dei
bombardamenti, aveva visto anche lui compagni e familiari cadere giù, crollare
e andare in mille pezzi sotto i suoi occhi. Non aveva detto più niente fino
alla fine. Fino a quando il fischio delle bombe e i rombi degli aerei avevano
lasciato posto solo alle pale degli elicotteri della Croce Rossa. Solo allora
aveva potuto iniziare a piangere, con calma e ordinatamente.
Era
stato l’unico, o comunque uno dei pochi ad aver mantenuto la calma. Gli altri,
soprattutto le tegole sul lato del tetto più esposto, avevano gridato per tutto
il tempo di quel bombardamento. Ancora gli sembrava di sentirle, quelle urla. Gridavano
forte, quasi quanto le persone dentro il palazzo e nella piazza, fuori, sotto,
chi era uscito a prendere aria, chi era andato a far provviste, chi ad aiutare un
vicino, o qualcun’altro.
Poi,
la calma dopo la tempesta era arrivata di colpo. C’era la neve sui viali, sulla
piazza, e sul tetto. Non era più la pennellata bianca perfetta che lo copriva tutto fino
all’inverno dell’anno prima. C’era quel buco nero al centro, come una bocca
spalancata che inghiottiva fiocchi, pioggia, grandine, tutto.
Il loro bel palazzo d’epoca, lì da secoli, che
aveva resistito a bufere, venti e battaglie per cinquecento anni, adesso era sfigurato,
mutilato di parte della facciata, mentre uno sfregio sul tetto lo aveva
trasformato in una gola che inghiottiva qualsiasi cosa cadesse dal cielo.
“Teg,
non ci abbatteranno, e non perché siamo un palazzo d’epoca. Non ci abbatteranno
perché hanno bisogno di ricordarsi cos’è successo. Siamo un promemoria che li
atterrisce ogni volta che ci guardano. Li facciamo vergognare, di essere stati
ingenui e spietati. Di aver pensato che sarebbe successo solo agli altri, che
sarebbe stato giusto così, solo dall’altra parte della barricata. Li spaventiamo,
ogni volta che uno di loro passa qui davanti ci guarda e si volta subito,
perché il pensiero che possa succedere ancora lo terrorizza. Non ci butteranno
giù per lo stesso motivo per cui lasciano i buchi di mitraglia nelle altre
facciate. Hanno bisogno di ricordare a sé stessi quanto è stato brutto. Perché
il giorno in cui dovessero dimenticarlo, sarebbe la fine.”
Lei
adesso lo guardava fisso, con lo stesso sguardo speranzoso che aveva in viso
quando lo aveva ascoltato quel giorno. Poi si voltò verso il buco. Il falchetto
tornava verso il nido …
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