venerdì 6 giugno 2014

Il mio sogno si è avverato


Il mio sogno si è avverato
Di
Laura Niolu
  
   Eccomi qui dunque. Circostanza già più volte immaginata: sprofondare nelle viscere della terra, piuttosto che trovarmi come il tenente Drogo ad attendere un riscatto che non arriverà mai.

   E’ domenica: mezzogiorno. Mi sveglio e lo stabilisco. E’ oggi il giorno giusto. Oggi lo faccio e basta: sparisco. Come non ha importanza: troverò un modo. Sono stanca di tutto e tutti.

   Tutti chi?

   Dopo alcune ore di riflessioni e angosce e rimestare e camminare su e giù per il corridoio, apro la porta di casa e me la richiudo alle spalle. Scendo le scale del palazzo. Appena fuori volto la testa da una parte e dall’altra. E sono colpita da un silenzio surreale. Così vado in giro per la città. Vago a vuoto senza meta. Ma non c’è anima viva. Decido di non darci peso e mi godo questa tranquillità inaspettata.
   Un’auto è ferma proprio al centro della via coi fari accesi. Mi risolvo ad avvicinarmi per sapere se al guidatore serva aiuto. Ma sento il solo rombo del motore: il sedile è vuoto o meglio pare di vedere solo un’immagine scura, un semplice simulacro. Altre vetture viaggiano ordinate illuminando la carreggiata parallela.  Al posto di guida la stessa piatta e opaca immagine.
   Guardo l’orologio da polso: le nove di sera. C’è un caldo infernale. Ho bisogno di una bibita fresca. Punto verso il bar dell’angolo da cui rimbomba la musica ripetitiva di un disco che ha tutta l’aria d’essersi arenato. Dietro il bancone non c’è nessuno, tanto meno alla cassa. Non ho fatto la spesa e non ho nulla per cena, vado a servirmi. Rovisto nel frigo e agguanto una bottiglia di birra da un litro. La stappo e inizio ad assaporare a piccoli sorsi. Mi viene fame. Nel ripostiglio trovo solo dei pacchi di patatine scadute e delle tartine di pane raffermo. Allungo lo sguardo per assicurarmi che non sia arrivato qualcuno, ma la situazione è stazionaria.
   Penso allora che sia una buona idea andare a far visita a un mio amico.
   Stranamente il portone della palazzina è dischiuso e non devo quindi suonare. Quando sono al secondo piano di fronte all’ascensore trovo una porta aperta (non è la casa che cerco). Mi sporgo e ci infilo dentro la testa. Sento una voce ma mi rendo conto che proviene da un televisore acceso. Dopo aver fatto alcuni passi sbuco in una minuscola cucina la cui tavola è ancora apparecchiata. Un bicchiere con dell’acqua, una bottiglia di vino rosso a metà, degli avanzi di pane spezzettato. Aleggia un forte odore di cibo stantio. Provo a chiamare, ma invano.
   Lascio quella casa e mi dirigo da Marco che abita nella porta accanto. E’ aperta. Attraverso il lungo andito e mi porto nella sua camera dove trovo il letto sfatto e dei jeans che vi giacciono sopra abbandonati. Nell’aria ancora il suo profumo. Non ho il telefono con me e decido di usare il fisso per fargli uno squillo. Ma dall’altra parte si avvia una segreteria telefonica. Voce metallica, lasciare un messaggio. Ma un messaggio per chi? Mi chiedo come mai Marco non abbia chiuso l’appartamento a chiave prima di uscire. Che è successo? Non so.
   Mi allontano da quel quartiere per accertarmi. Indagare.
   Andare a trovare il mio psichiatra. E’ una priorità. Ma all’improvviso ricordo che da un mese ha smesso di respirare. Mi viene in mente allora di recarmi da un altro amico che non vedo da un po’.
   Mi siedo in automobile ma scivolo in un sonno pesante da cui mi sveglio alle nove del mattino del giorno successivo, apro gli occhi e noto che non c’è ancora nessuno. Aziono il motore e guido piano in mezzo a una luce accecante. Imbocco una strada sterrata e passo tra alti cespugli. Traggo fuori dal finestrino la mano e afferro delle mimose giallissime, le accosto al mio naso: non è odore di mimose. O meglio non hanno odore. E non riesco a strapparle. Che siano finte, di plastica? Subito sono presa da altri pensieri.

   La grande porta di legno verde chiarissimo davanti al giardino è spalancata. Posteggio, smonto e entro. Chiamo. Nessuna risposta.
   Ma insomma che succede?
   Giorgio non c’è, così cerco almeno i suoi numerosissimi gatti. Lui impazzisce per i gatti. E’ lui stesso che un giorno me ne ha regalato uno nero. A proposito, il mio di gatto dov’è finito? Quando sono uscita non l’ho visto. Può darsi che stesse dormendo sul divano del salone. Ricordo il nome di uno dei gatti di Giorgio, è bianco e peloso, e si chiama Seo, perché un amico gliel’aveva portato dal Colosseo. Chiamo, ma non arriva. Eppure quei gatti sono sempre affamati. Ora, però a un tratto ricordo tutto: Giorgio non abita qui in estate, potrebbe essere partito a Londra e aver portato con sé anche Seo.
   La camera da letto è in totale subbuglio: mutande e canotte sembrano gettate a caso sul letto, sul divano, sulla poltrona. Le ante dell’armadio spalancate, le grucce vuote. Mi inchino e apro un grande cassetto: anche questo è vuoto, c’è solo un calzino grigio. Mi dico che deve essere senz’altro andato via. Sul comodino c’è un telefono, lo alzo e compongo il suo numero. Segreteria telefonica italiana. Dunque non è partito. Ma allora? L’occhio mi cade sul calendario: è indietro di un mese. Non è da lui, è uno troppo preciso.
   Percorro tutta la casa guardando di qua e di là. Il disordine regna sovrano un po’ dappertutto.
   Finalmente sono fuori dal cancello. Caldo tropicale e luce sfavillante. Mi tolgo il giubbino e resto in top.
   Mamma e babbo. Sì, credo che andrò da loro. Entro in auto e mi viene voglia di ascoltare un po’ di musica. Premo il tasto, sintonizzo la radio. Può darsi che trasmettano un notiziario…
   Ecco fuoriuscire un irritante gracchiare. Nessuna stazione funziona.
Inizio a odiare questa mia nuova condizione.
   Ma non voglio perdermi d’animo, mio padre mi ha sempre detto che non bisogna arrendersi. Accendo l’auto e parto. I miei vivono a trenta chilometri da qua. Gli occhi mi vanno sul quadro. Maledizione. Sono in riserva. Andrò all’automatico, è giusto all’uscita della città. Sta calando il sole e da qui vedo una palla infuocata che accarezza l’orizzonte. Per un istante la mia mente è sfiorata dal ricordo di quel tramonto a Barbados. Subito altri pensieri mi si inanellano nel cervello. L’immagine di lui mi assale. Mi chiedo dove sarà adesso. Starà dormendo? O anche lui come gli altri è sparito? Lui è sparito prima degli altri, di questo sono certa. I morsi di una gelosia retroattiva mi attanagliano. Sono assediata dal malumore, e vorrei distrarmi pensando ad altro. Ho fame e non vedo l’ora di arrivare a casa della mamma, che sicuramente oggi avrà preparato qualcosa di buono. Magari quelle fantastiche lenticchie che mi hanno sempre fatto bene all’umore.
   Al distributore il benzinaio non c’è, inserisco cinquanta euro, prendo la pompa della benzina e faccio il pieno. Non chiamo a casa perché non mi vedono da un po’ e vorrei far loro una sorpresa.
   Sono le otto di sera, è buio, incrocio altre auto, ma sono senza guidatore. O forse c’è, avverto la presenza della solita ombra.
   Ecco Sassari, intravedo la città e le sue luci sfolgoranti. Non vedo l’ora di essere da loro. Staranno guardando quel programma che a loro piace tanto, lo trasmettono il lunedì.
   Sono sotto casa. Posteggio. Apro il portone, non suono neppure. Ascensore. Ultimo piano. Apro il cancello, percorro il corridoio. Suono. Non vorrei si spaventassero a vedermi irrompere nel cuore della notte in casa. Nessuna risposta. Riprovo. Niente. Mi attacco al campanello. Ancora nulla. Dalla tasca dei jeans sfilo le chiavi. Apro. Dal salone proviene una musica.   Strano, perché non sono tipi da radio i miei. Visito tutta la casa, apro le stanze, una ad una. Tutto trasmette una sensazione di immobilità. Quasi come se in questa casa non ci abitasse nessuno da un pezzo. C’è un perfetto ordine, anche se i mobili sono coperti da una quantità copiosa di polvere. Volgo gli occhi al soffitto: una gigantesca ragnatela lo avvolge. La musica è prodotta dalla radio. Un cd seguita ad incepparsi. Forse lasciato dalla colf, l’unica che sappia qualcosa di tecnologia.
   Mi viene da urlare. Chiamare. Lo faccio, ma so che è inutile. Nessuna risposta.
   Dissipatio H.G.: di colpo mi affiora alla memoria quell’amato libro caldamente consigliato dal mio analista. Eviterei di sentirmi come Godot nell’inutile attesa del nulla. Non dovrei più sforzarmi e nemmeno arrovellarmi per cercare incessantemente delle spiegazioni che non ci sono. Delle risposte che non ho mai trovato. Non dovrei più relazionarmi con nessuno…
   Da giorni una parola martella il mio cervello: disadattato, disadattato, disadattato. Termine inquietante che associo a Guido Morselli. Sono dunque disadattata, io? Come mi sento simile a lui!
   Morire a quarant’anni. E’ stato sempre in cima ai miei desideri. Per non trovarmi irrimediabilmente e ineluttabilmente sola. E vecchia. Mi accorgo che questo è già il nulla: sola lo sono davvero.
   Devo averlo sempre vagheggiato e forse persino sperato. Io sola in un mondo deserto. Tutti scomparsi? Possibile?
   Ora ho capito: il mio sogno si è avverato. Come mai invece non lo riconosco più? Un noto terapeuta afferma che i sogni smettono di esser tali nell’esatto istante in cui si realizzano.














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