Il mio sogno si è avverato
Di
Laura Niolu
Eccomi qui dunque. Circostanza già più volte immaginata: sprofondare
nelle viscere della terra, piuttosto che trovarmi come il tenente Drogo ad
attendere un riscatto che non arriverà mai.
E’
domenica: mezzogiorno. Mi sveglio e lo stabilisco. E’ oggi il giorno giusto.
Oggi lo faccio e basta: sparisco. Come non ha importanza: troverò un modo. Sono
stanca di tutto e tutti.
Tutti chi?
Dopo
alcune ore di riflessioni e angosce e rimestare e camminare su e giù per il
corridoio, apro la porta di casa e me la richiudo alle spalle. Scendo le scale
del palazzo. Appena fuori volto la testa da una parte e dall’altra. E sono
colpita da un silenzio surreale. Così vado in giro per la città. Vago a vuoto
senza meta. Ma non c’è anima viva. Decido di non darci peso e mi godo questa
tranquillità inaspettata.
Un’auto è ferma proprio al centro della via coi fari accesi. Mi risolvo
ad avvicinarmi per sapere se al guidatore serva aiuto. Ma sento il solo rombo
del motore: il sedile è vuoto o meglio pare di vedere solo un’immagine scura,
un semplice simulacro. Altre vetture viaggiano ordinate illuminando la
carreggiata parallela. Al posto di guida
la stessa piatta e opaca immagine.
Guardo l’orologio da polso: le nove di sera. C’è un caldo infernale. Ho
bisogno di una bibita fresca. Punto verso il bar dell’angolo da cui rimbomba la
musica ripetitiva di un disco che ha tutta l’aria d’essersi arenato. Dietro il
bancone non c’è nessuno, tanto meno alla cassa. Non ho fatto la spesa e non ho
nulla per cena, vado a servirmi. Rovisto nel frigo e agguanto una bottiglia di
birra da un litro. La stappo e inizio ad assaporare a piccoli sorsi. Mi viene
fame. Nel ripostiglio trovo solo dei pacchi di patatine scadute e delle tartine
di pane raffermo. Allungo lo sguardo per assicurarmi che non sia arrivato
qualcuno, ma la situazione è stazionaria.
Penso allora che sia una buona idea andare a far visita a un mio amico.
Stranamente il portone della palazzina è dischiuso e non devo quindi
suonare. Quando sono al secondo piano di fronte all’ascensore trovo una porta
aperta (non è la casa che cerco). Mi sporgo e ci infilo dentro la testa. Sento
una voce ma mi rendo conto che proviene da un televisore acceso. Dopo aver
fatto alcuni passi sbuco in una minuscola cucina la cui tavola è ancora
apparecchiata. Un bicchiere con dell’acqua, una bottiglia di vino rosso a metà,
degli avanzi di pane spezzettato. Aleggia un forte odore di cibo stantio. Provo
a chiamare, ma invano.
Lascio quella casa e mi dirigo da Marco che abita nella porta accanto.
E’ aperta. Attraverso il lungo andito e mi porto nella sua camera dove trovo il
letto sfatto e dei jeans che vi giacciono sopra abbandonati. Nell’aria ancora
il suo profumo. Non ho il telefono con me e decido di usare il fisso per fargli
uno squillo. Ma dall’altra parte si avvia una segreteria telefonica. Voce
metallica, lasciare un messaggio. Ma un messaggio per chi? Mi chiedo come mai Marco non abbia chiuso
l’appartamento a chiave prima di uscire. Che è successo? Non so.
Mi
allontano da quel quartiere per accertarmi. Indagare.
Andare a trovare il mio psichiatra. E’ una priorità. Ma all’improvviso
ricordo che da un mese ha smesso di respirare. Mi viene in mente allora di
recarmi da un altro amico che non vedo da un po’.
Mi
siedo in automobile ma scivolo in un sonno pesante da cui mi sveglio alle nove
del mattino del giorno successivo, apro gli occhi e noto che non c’è ancora
nessuno. Aziono il motore e guido piano in mezzo a una luce accecante. Imbocco
una strada sterrata e passo tra alti cespugli. Traggo fuori dal finestrino la
mano e afferro delle mimose giallissime, le accosto al mio naso: non è odore di
mimose. O meglio non hanno odore. E non riesco a strapparle. Che siano finte,
di plastica? Subito sono presa da altri pensieri.
La
grande porta di legno verde chiarissimo davanti al giardino è spalancata.
Posteggio, smonto e entro. Chiamo. Nessuna risposta.
Ma
insomma che succede?
Giorgio
non c’è, così cerco almeno i suoi numerosissimi gatti. Lui impazzisce per i
gatti. E’ lui stesso che un giorno me ne ha regalato uno nero. A proposito, il
mio di gatto dov’è finito? Quando sono uscita non l’ho visto. Può darsi che
stesse dormendo sul divano del salone. Ricordo il nome di uno dei gatti di
Giorgio, è bianco e peloso, e si chiama Seo, perché un amico gliel’aveva
portato dal Colosseo. Chiamo, ma non arriva. Eppure quei gatti sono sempre
affamati. Ora, però a un tratto ricordo tutto: Giorgio non abita qui in estate,
potrebbe essere partito a Londra e aver portato con sé anche Seo.
La
camera da letto è in totale subbuglio: mutande e canotte sembrano gettate a
caso sul letto, sul divano, sulla poltrona. Le ante dell’armadio spalancate, le
grucce vuote. Mi inchino e apro un grande cassetto: anche questo è vuoto, c’è
solo un calzino grigio. Mi dico che deve essere senz’altro andato via. Sul
comodino c’è un telefono, lo alzo e compongo il suo numero. Segreteria
telefonica italiana. Dunque non è partito. Ma allora? L’occhio mi cade sul
calendario: è indietro di un mese. Non è da lui, è uno troppo preciso.
Percorro
tutta la casa guardando di qua e di là. Il disordine regna sovrano un po’
dappertutto.
Finalmente
sono fuori dal cancello. Caldo tropicale e luce sfavillante. Mi tolgo il
giubbino e resto in top.
Mamma
e babbo. Sì, credo che andrò da loro. Entro in auto e mi viene voglia di
ascoltare un po’ di musica. Premo il tasto, sintonizzo la radio. Può darsi che
trasmettano un notiziario…
Ecco
fuoriuscire un irritante gracchiare. Nessuna stazione funziona.
Inizio a odiare questa mia nuova condizione.
Ma
non voglio perdermi d’animo, mio padre mi ha sempre detto che non bisogna
arrendersi. Accendo l’auto e parto. I miei vivono a trenta chilometri da qua.
Gli occhi mi vanno sul quadro. Maledizione. Sono in riserva. Andrò
all’automatico, è giusto all’uscita della città. Sta calando il sole e da qui
vedo una palla infuocata che accarezza l’orizzonte. Per un istante la mia mente
è sfiorata dal ricordo di quel tramonto a Barbados. Subito altri pensieri mi si
inanellano nel cervello. L’immagine di lui mi assale. Mi chiedo dove sarà
adesso. Starà dormendo? O anche lui come gli altri è sparito? Lui è sparito prima
degli altri, di questo sono certa. I morsi di una gelosia retroattiva mi
attanagliano. Sono assediata dal malumore, e vorrei distrarmi pensando ad
altro. Ho fame e non vedo l’ora di arrivare a casa della mamma, che sicuramente
oggi avrà preparato qualcosa di buono. Magari quelle fantastiche lenticchie che
mi hanno sempre fatto bene all’umore.
Al
distributore il benzinaio non c’è, inserisco cinquanta euro, prendo la pompa
della benzina e faccio il pieno. Non chiamo a casa perché non mi vedono da un
po’ e vorrei far loro una sorpresa.
Sono
le otto di sera, è buio, incrocio altre auto, ma sono senza guidatore. O forse
c’è, avverto la presenza della solita ombra.
Ecco
Sassari, intravedo la città e le sue luci sfolgoranti. Non vedo l’ora di essere
da loro. Staranno guardando quel programma che a loro piace tanto, lo
trasmettono il lunedì.
Sono
sotto casa. Posteggio. Apro il portone, non suono neppure. Ascensore. Ultimo
piano. Apro il cancello, percorro il corridoio. Suono. Non vorrei si
spaventassero a vedermi irrompere nel cuore della notte in casa. Nessuna
risposta. Riprovo. Niente. Mi attacco al campanello. Ancora nulla. Dalla tasca
dei jeans sfilo le chiavi. Apro. Dal salone proviene una musica. Strano, perché non sono tipi da radio i miei.
Visito tutta la casa, apro le stanze, una ad una. Tutto trasmette una
sensazione di immobilità. Quasi come se in questa casa non ci abitasse nessuno
da un pezzo. C’è un perfetto ordine, anche se i mobili sono coperti da una
quantità copiosa di polvere. Volgo gli occhi al soffitto: una gigantesca
ragnatela lo avvolge. La musica è prodotta dalla radio. Un cd seguita ad
incepparsi. Forse lasciato dalla colf, l’unica che sappia qualcosa di
tecnologia.
Mi
viene da urlare. Chiamare. Lo faccio, ma so che è inutile. Nessuna risposta.
Dissipatio
H.G.: di colpo mi affiora alla memoria quell’amato libro caldamente consigliato
dal mio analista. Eviterei di sentirmi come Godot nell’inutile attesa del
nulla. Non dovrei più sforzarmi e nemmeno arrovellarmi per cercare incessantemente
delle spiegazioni che non ci sono. Delle risposte che non ho mai trovato. Non
dovrei più relazionarmi con nessuno…
Da
giorni una parola martella il mio cervello: disadattato, disadattato,
disadattato. Termine inquietante che associo a Guido Morselli. Sono dunque
disadattata, io? Come mi sento simile a lui!
Morire
a quarant’anni. E’ stato sempre in cima ai miei desideri. Per non trovarmi
irrimediabilmente e ineluttabilmente sola. E vecchia. Mi accorgo che questo è
già il nulla: sola lo sono davvero.
Devo
averlo sempre vagheggiato e forse persino sperato. Io sola in un mondo deserto.
Tutti scomparsi? Possibile?
Ora
ho capito: il mio sogno si è avverato. Come mai invece non lo riconosco più? Un
noto terapeuta afferma che i sogni smettono di esser tali nell’esatto istante
in cui si realizzano.
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