venerdì 6 giugno 2014

L’equivoco


L’equivoco
di
Daniela Piras


Il passo di Marco era svelto e deciso mentre percorreva i vicoli umidi e scivolosi del centro storico della città. Quello stesso centro che, una quindicina di anni addietro, appariva ancora florido e vivo e che ora pareva lo spettro di se stesso.

Marco, ogni volta che metteva piede tra quei viottoli, non poteva fare e meno di ricordare le vie affollate dove sua madre lo portava da bambino, tenendolo stretto per mano. Rivedeva i negozietti dai quali giungeva il profumo di formaggi e di salsiccia, le pizzerie al taglio, i banchetti sparsi, le pescherie con le ceste piene di anguille vive che sguazzavano, l’anziana signora che era solita stare all’angolo tra via Brigata Sassari e via Turritana, seduta sopra una cassetta della frutta a vendere lumache, “lu marchaddu di lu pesciu” e poi Piazza Tola, maestosa, con gli ambulanti che facevano a gara a chi urlava di più e la confusione rassicurante di quelle mattine.
Quel giorno, invece, erano all'incirca le undici e per strada non c’era quasi nessuno, a parte alcuni avventori che sostavano fuori dai circoli ricreativi, intenti a fumare.
Marco aveva qualche minuto di ritardo. Doveva incontrarsi con un cliente interessato a un piccolo appartamento ristrutturato in vendita, che la sua agenzia immobiliare stava proponendo da qualche mese, senza grande successo.
Giuseppe, il cliente, lo aspettava all’incrocio tra via Moscatello e via delle Muraglie. Si trattava di un affermato architetto che aveva deciso d’investire alcuni risparmi nell’acquisto di un appartamento; ne aveva già visto diversi nelle ultime settimane, ma nessuno lo aveva colpito in maniera particolare.
Dopo alcuni convenevoli, i due entrarono nella palazzina.
Marco attraversò l’androne umido e fatiscente dello stabile, spiegando al cliente i motivi che avevano portato al parziale abbandono delle zone comuni ed elencando una serie di lavori che dovevano essere portati a compimento, a breve, da tutti i condomini.
Salite le prime due rampe di scale, i due arrivarono dinanzi alla porta dell’appartamento in vendita. Marco inserì la chiave nella serratura, ma non riuscì ad aprire. Provò altre due volte, ma non sembrava esserci verso. La porta rimaneva chiusa.
Dopo qualche colpo di tosse di circostanza, l’agente asserì:
«Credo di aver sbagliato chiave, dovrebbe avere qualche minuto di pazienza, vado in ufficio e torno, ci possiamo vedere tra un quarto d’ora, se a lei va bene.»
«Non c’è problema, sono cose che capitano» – rispose il cliente con fare comprensivo – «vada pure, io ne approfitto per fare una passeggiata nei paraggi.»
Scesero piano le scale consumate dal tempo; dal pianerottolo del primo piano si affacciò una signora di mezza età, con uno scialle sul capo e tre denti mancanti nell’arcata superiore che li ammonì esclamando: «Quando arrivate giù spegnete la luce! Capito? Che l’elettricità costa!»
Marco, piuttosto imbarazzato, accennò un sorriso rassicurante e fece un cenno affermativo alla donna. Controllò poi che il suo cliente non mostrasse segni di fastidio, ma questi non sembrava essersi scomposto più di tanto.
Una volta fuori, Marco, inquieto, andò verso la macchina parcheggiata a qualche centinaia di metri, fuori dalla zona a traffico limitato.
“Non è possibile!” – blaterò tra sé e sé – “Qualcuno dei collaboratori deve avere scambiato la chiave! Adesso mi sentono!”.
Il traffico, al di fuori del centro semideserto era molto pesante e Marco impiegò più di dieci minuti per arrivare in ufficio, che si trovava dalla parte opposta della città.
Una volta entrato nello studio però, non trovò nessuno con cui lamentarsi, i suoi dipendenti erano fuori per degli appuntamenti. Cominciò allora a controllare freneticamente tra le chiavi appese: niente. La chiave dell’appartamento di via delle Muraglie non c’era. Eppure era sicuro di averne una copia. Dopo aver imprecato ad alta voce contro i suoi collaboratori (era solito farlo anche quando non li aveva davanti), disordinati e poco affidabili, causa di tutti i problemi dell’agenzia, a iniziare dalla crisi per finire con la perdita di chiavi e di tutti i documenti possibili e immaginabili, Marco intravide la chiave mancante poggiata sulla sua scrivania.
“Eccola! Finalmente! Chissà chi l’ha messa qui! Sicuramente non io!” – disse a voce alta, prima di uscire.
Nel frattempo Giuseppe, in vicolo delle muraglie, stava facendo due passi per esaminare il quartiere circostante l’appartamento. Non era male, si trattava di uno dei centri storici più ampi d’Europa. Un vero patrimonio architettonico. Notò subito che tutta la città vecchia meritava un’opportuna rivalorizzazione; Quel rione, in ogni caso, aveva qualcosa di molto particolare: conservava il fascino del periodo medievale.
Giuseppe provava ad immaginare intatta la recinzione muraria che un tempo circondava la città e che in quel tratto presentava ancora tracce visibili, anche se impercettibili ai più. Inorridì notando una mansarda costruita proprio sopra alle mura: s’intravedeva anche la tenda della doccia che svolazzava dalla finestrella del bagno, proprio a pochi metri dai tre stemmi che testimoniavano tre diversi momenti storici della città turritana. L’architetto cercò di osservare meglio quella strana forma di edilizia moderna: si trovava davanti ad una vera e propria sopraelevazione delle antiche mura, uno scempio architettonico non da poco.
Marco spuntò all’improvviso dall’angolo del vicolo, fece un cenno e si portò di corsa verso il suo cliente. Si scusò ancora per l’imprevisto e per il ritardo dovuto al gran traffico, poi invitò Giuseppe a seguirlo dentro la palazzina per la seconda volta.
I due risalirono i ripidi gradini e di nuovo si trovarono davanti alla porta d’ingresso. Marco inserì la chiave nella serratura. Niente. Non c’era verso. La chiave faceva uno strano gioco all’interno della toppa, girava a vuoto.
«Sono mortificato» – si scusò – «Non so davvero come sia possibile. Sembra ci sia un problema al tamburo della serratura. Credo dovremo rimandare la visita.»
Giuseppe abbozzò un mezzo sorriso di circostanza. “Mezza mattinata gettata al vento” – pensò. Si rivolse poi a Marco, con tono comprensivo:
«Come si dice… Pazienza, no? Vorrà dire che questa casa non gradisce che io la compri!»
Marco ringraziò il fato che il giorno gli aveva concesso un cliente educato, poiché questo accadeva sempre più di rado.
«Cercherò di risolvere al più presto questo problema, per ora la ringrazio della comprensione, sa, di questi tempi, non è cosa da poco incontrare ancora persone a modo come lei.»
I due discesero le scale e si salutarono sull’uscio, con una stretta di mano.
Marco continuava a imprecare mentalmente contro la serratura rotta, la ricevuta del parcheggio a pagamento e la mattinata sprecata procedendo, visibilmente nervoso, verso Corso Trinità.
Arrivato quasi all’angolo con via Moscatello, l’agente venne fermato da un tipo assai strano: un uomo sulla cinquantina tozzo e bluastro in volto, piuttosto trasandato, indossava una giacca grigia di buona fattura che un tempo doveva essere parte di un abito distinto e jeans ordinari, di due taglie più grandi; i capelli unti, brizzolati e la barba fatta.
Si avvicinò oltre misura all’orecchio di Marco e gli bisbigliò:
«Sei di ritorno? Non hai trovato quello che cercavi? Ti posso aiutare io. Abbiamo di tutto.»
Marco, d’istinto, arretrò di un passo. Rimase per un paio di secondi scosso dall’alito acre che gli aveva sfiorato il viso.
«Tutto?!»
«Sì, tutto. Basta chiedere.»
«Guardi, forse mi sta scambiando per qualcun altro. Io sono qui perché sto trattando la vendita di una casa... »
«Sì, sì, non si preoccupi. Qui arrivano tutti: medici, avvocati, impresari… Ho visto che è venuto prima e, dopo qualche minuto, è andato via. Non ha trovato nessuno, lì? Mi sa che si sono trasferite, quelle due. Forse il suo amico non lo sapeva. Qui le cose cambiano rapidamente, così come gli alloggi. Questione di sicurezza, lei capisce. Questione di discrezione, più che altro.»
«Guardi, glielo ripeto, lei sta confondendo le cose. Io non cerco nessuna e nessuno!»
«Va bene, non si scaldi» – proseguì l’uomo, trattenendolo lievemente per il braccio – «io glielo dico solo perché mi è sembrato un po’ perso. Le ripeto, abbiamo di tutto. Bianche, nere e pure trans. Nigeriane, romene e slave. Le faccio fare un buon prezzo. Se non ha soldi con sé posso anticipare io la metà. Le do il mio numero di telefono e stasera mi passa il resto, senza problemi.»
Marco si guardò intorno in cerca di un supporto esterno. Niente. Non c’era nessuno nei vicoli, solo due gatti che stavano distruggendo una busta d’immondizia nera abbandonata in mezzo alla stradina. Cercò con lo sguardo gli avventori che poco prima stavano fumando fuori dal circolo Li Carreri. Nulla. Non c’era più nessuno.
Assalito da un leggero panico, esclamò ad alta voce, liberandosi dalla morsa: «Mi lasci! Non ho bisogno di nessuno, le ho detto! Sto solo lavorando! O devo chiamare qualcuno? »
Il tale, che non si aspettava una reazione del genere, indietreggiò adagio, trascinando i piedi sul ciottolato e mormorando: «Non c’è mica bisogno di urlare. Anche io sto lavorando, cosa crede? Le stavo solo dicendo che abbiamo di tutto: bianche, nere e pure trans. E a buon prezzo.»
Marco, rimasto solo, diede un ultimo sguardo generale alle strade deserte, ai portoncini di legno, alle finestre logorate dall’umidità e ai panni stesi sui cordoncini appesi alle facciate.
I due gatti gli passarono davanti con una scatoletta di tonno in bocca, tenendola per il coperchio. Un topo di fogna, furtivo, quasi della loro stessa stazza, attraversava il vicolo.
Visibilmente frastornato, Marco ricominciò a camminare, dirigendosi spedito verso il parcheggio a stalli blu, con la consapevolezza che il degrado del centro storico era arrivato a livelli inestimabili.

“Non la venderemo mai, quella casa” – pensò una volta sedutosi in macchina, poggiando stremato la testa sullo sterzo.

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