L’equivoco
di
Daniela Piras
Il passo di Marco era svelto e deciso mentre
percorreva i vicoli umidi e scivolosi del centro storico della città. Quello
stesso centro che, una quindicina di anni addietro, appariva ancora florido e
vivo e che ora pareva lo spettro di se stesso.
Marco, ogni volta che metteva piede tra quei viottoli,
non poteva fare e meno di ricordare le vie affollate dove sua madre lo portava
da bambino, tenendolo stretto per mano. Rivedeva i negozietti dai quali giungeva
il profumo di formaggi e di salsiccia, le pizzerie al taglio, i banchetti
sparsi, le pescherie con le ceste piene di anguille vive che sguazzavano,
l’anziana signora che era solita stare all’angolo tra via Brigata Sassari e via
Turritana, seduta sopra una cassetta della frutta a vendere lumache, “lu
marchaddu di lu pesciu” e poi Piazza Tola, maestosa, con gli ambulanti che
facevano a gara a chi urlava di più e la confusione rassicurante di quelle
mattine.
Quel giorno, invece, erano all'incirca le undici e per
strada non c’era quasi nessuno, a parte alcuni avventori che sostavano fuori
dai circoli ricreativi, intenti a fumare.
Marco aveva qualche minuto di ritardo. Doveva
incontrarsi con un cliente interessato a un piccolo appartamento ristrutturato
in vendita, che la sua agenzia immobiliare stava proponendo da qualche mese,
senza grande successo.
Giuseppe, il cliente, lo aspettava all’incrocio tra via
Moscatello e via delle Muraglie. Si trattava di un affermato architetto che
aveva deciso d’investire alcuni risparmi nell’acquisto di un appartamento; ne
aveva già visto diversi nelle ultime settimane, ma nessuno lo aveva colpito in
maniera particolare.
Dopo alcuni convenevoli, i due entrarono nella
palazzina.
Marco
attraversò l’androne umido e fatiscente dello stabile, spiegando al cliente i
motivi che avevano portato al parziale abbandono delle zone comuni ed elencando
una serie di lavori che dovevano essere portati a compimento, a breve, da tutti
i condomini.
Salite le prime due rampe di scale, i due arrivarono
dinanzi alla porta dell’appartamento in vendita. Marco inserì la chiave nella
serratura, ma non riuscì ad aprire. Provò altre due volte, ma non sembrava esserci
verso. La porta rimaneva chiusa.
Dopo
qualche colpo di tosse di circostanza, l’agente asserì:
«Credo di aver sbagliato chiave, dovrebbe avere qualche
minuto di pazienza, vado in ufficio e torno, ci possiamo vedere tra un quarto
d’ora, se a lei va bene.»
«Non c’è problema, sono cose che capitano» – rispose
il cliente con fare comprensivo – «vada pure, io ne approfitto per fare una
passeggiata nei paraggi.»
Scesero piano le scale consumate dal tempo; dal
pianerottolo del primo piano si affacciò una signora di mezza età, con uno
scialle sul capo e tre denti mancanti nell’arcata superiore che li ammonì
esclamando: «Quando arrivate giù spegnete la luce! Capito? Che l’elettricità
costa!»
Marco, piuttosto imbarazzato, accennò un sorriso
rassicurante e fece un cenno affermativo alla donna. Controllò poi che il suo
cliente non mostrasse segni di fastidio, ma questi non sembrava essersi scomposto
più di tanto.
Una volta fuori, Marco, inquieto, andò verso la
macchina parcheggiata a qualche centinaia di metri, fuori dalla zona a traffico
limitato.
“Non è possibile!” – blaterò tra sé e sé – “Qualcuno dei
collaboratori deve avere scambiato la chiave! Adesso mi sentono!”.
Il traffico, al di fuori del centro semideserto era
molto pesante e Marco impiegò più di dieci minuti per arrivare in ufficio, che
si trovava dalla parte opposta della città.
Una volta entrato nello studio però, non trovò nessuno
con cui lamentarsi, i suoi dipendenti erano fuori per degli appuntamenti. Cominciò
allora a controllare freneticamente tra le chiavi appese: niente. La chiave
dell’appartamento di via delle Muraglie non c’era. Eppure era sicuro di averne
una copia. Dopo aver imprecato ad alta voce contro i suoi collaboratori (era
solito farlo anche quando non li aveva davanti), disordinati e poco affidabili,
causa di tutti i problemi dell’agenzia, a iniziare dalla crisi per finire con
la perdita di chiavi e di tutti i documenti possibili e immaginabili, Marco
intravide la chiave mancante poggiata sulla sua scrivania.
“Eccola! Finalmente! Chissà chi l’ha messa qui!
Sicuramente non io!” – disse a voce alta, prima di uscire.
Nel frattempo Giuseppe, in vicolo delle muraglie, stava
facendo due passi per esaminare il quartiere circostante l’appartamento. Non
era male, si trattava di uno dei centri storici più ampi d’Europa. Un vero
patrimonio architettonico. Notò subito che tutta la città vecchia meritava un’opportuna
rivalorizzazione; Quel rione, in ogni caso, aveva qualcosa di molto particolare:
conservava il fascino del periodo medievale.
Giuseppe provava ad immaginare intatta la recinzione
muraria che un tempo circondava la città e che in quel tratto presentava ancora
tracce visibili, anche se impercettibili ai più. Inorridì notando una mansarda
costruita proprio sopra alle mura: s’intravedeva anche la tenda della doccia
che svolazzava dalla finestrella del bagno, proprio a pochi metri dai tre stemmi
che testimoniavano tre diversi momenti storici della città turritana. L’architetto
cercò di osservare meglio quella strana forma di edilizia moderna: si trovava
davanti ad una vera e propria sopraelevazione delle antiche mura, uno scempio
architettonico non da poco.
Marco spuntò all’improvviso dall’angolo del vicolo, fece
un cenno e si portò di corsa verso il suo cliente. Si scusò ancora per
l’imprevisto e per il ritardo dovuto al gran traffico, poi invitò Giuseppe a
seguirlo dentro la palazzina per la seconda volta.
I due risalirono i ripidi gradini e di nuovo si
trovarono davanti alla porta d’ingresso. Marco inserì la chiave nella
serratura. Niente. Non c’era verso. La chiave faceva uno strano gioco
all’interno della toppa, girava a vuoto.
«Sono mortificato» – si scusò – «Non so davvero come
sia possibile. Sembra ci sia un problema al tamburo della serratura. Credo
dovremo rimandare la visita.»
Giuseppe abbozzò un mezzo sorriso di circostanza.
“Mezza mattinata gettata al vento” – pensò. Si rivolse poi a Marco, con tono
comprensivo:
«Come si dice… Pazienza, no? Vorrà dire che questa
casa non gradisce che io la compri!»
Marco ringraziò il fato che il giorno gli aveva
concesso un cliente educato, poiché questo accadeva sempre più di rado.
«Cercherò di risolvere al più presto questo problema,
per ora la ringrazio della comprensione, sa, di questi tempi, non è cosa da
poco incontrare ancora persone a modo come lei.»
I
due discesero le scale e si salutarono sull’uscio, con una stretta di mano.
Marco continuava a imprecare mentalmente contro la
serratura rotta, la ricevuta del parcheggio a pagamento e la mattinata sprecata
procedendo, visibilmente nervoso, verso Corso Trinità.
Arrivato quasi all’angolo con via Moscatello, l’agente
venne fermato da un tipo assai strano: un uomo sulla cinquantina tozzo e
bluastro in volto, piuttosto trasandato, indossava una giacca grigia di buona
fattura che un tempo doveva essere parte di un abito distinto e jeans ordinari,
di due taglie più grandi; i capelli unti, brizzolati e la barba fatta.
Si avvicinò oltre misura all’orecchio di Marco e gli
bisbigliò:
«Sei di ritorno? Non hai trovato quello che cercavi?
Ti posso aiutare io. Abbiamo di tutto.»
Marco, d’istinto, arretrò di un passo. Rimase per un paio
di secondi scosso dall’alito acre che gli aveva sfiorato il viso.
«Tutto?!»
«Sì, tutto. Basta chiedere.»
«Guardi, forse mi sta scambiando per qualcun altro. Io
sono qui perché sto trattando la vendita di una casa... »
«Sì,
sì, non si preoccupi. Qui arrivano tutti: medici, avvocati, impresari… Ho visto
che è venuto prima e, dopo qualche minuto, è andato via. Non ha trovato
nessuno, lì? Mi sa che si sono trasferite, quelle due. Forse il suo amico non
lo sapeva. Qui le cose cambiano rapidamente, così come gli alloggi. Questione
di sicurezza, lei capisce. Questione di discrezione, più che altro.»
«Guardi, glielo ripeto, lei sta confondendo le cose. Io
non cerco nessuna e nessuno!»
«Va bene, non si scaldi» – proseguì l’uomo,
trattenendolo lievemente per il braccio – «io glielo dico solo perché mi è
sembrato un po’ perso. Le ripeto, abbiamo di
tutto. Bianche, nere e pure trans. Nigeriane, romene e slave. Le faccio fare un
buon prezzo. Se non ha soldi con sé posso anticipare io la metà. Le do il mio
numero di telefono e stasera mi passa il resto, senza problemi.»
Marco si guardò intorno in cerca di un supporto
esterno. Niente. Non c’era nessuno nei vicoli, solo due gatti che stavano
distruggendo una busta d’immondizia nera abbandonata in mezzo alla stradina.
Cercò con lo sguardo gli avventori che poco prima stavano fumando fuori dal
circolo Li Carreri. Nulla. Non c’era
più nessuno.
Assalito da un leggero panico, esclamò ad alta voce,
liberandosi dalla morsa: «Mi lasci! Non ho bisogno di nessuno, le ho detto! Sto
solo lavorando! O devo chiamare qualcuno? »
Il tale, che non si aspettava una reazione del genere,
indietreggiò adagio, trascinando i piedi sul ciottolato e mormorando: «Non c’è
mica bisogno di urlare. Anche io sto lavorando, cosa crede? Le stavo solo
dicendo che abbiamo di tutto: bianche, nere e pure trans. E a buon prezzo.»
Marco, rimasto solo, diede un ultimo sguardo generale
alle strade deserte, ai portoncini di legno, alle finestre logorate
dall’umidità e ai panni stesi sui cordoncini appesi alle facciate.
I due gatti gli passarono davanti con una scatoletta
di tonno in bocca, tenendola per il coperchio. Un topo di fogna, furtivo, quasi
della loro stessa stazza, attraversava il vicolo.
Visibilmente frastornato, Marco ricominciò a
camminare, dirigendosi spedito verso il parcheggio a stalli blu, con la consapevolezza
che il degrado del centro storico era arrivato a livelli inestimabili.
“Non la venderemo mai, quella casa” – pensò una volta
sedutosi in macchina, poggiando stremato la testa sullo sterzo.
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