venerdì 6 giugno 2014

La città dei sogni infranti


LA CITTÀ DEI SOGNI INFRANTI
di
Rachele Puddu

Mi sveglio di scatto disturbata da un rumore indistinto proveniente dall’esterno. Mi ritrovo con la testa ai piedi del letto, il libro aperto, le lenzuola a terra e mi rendo conto di essere rimasta sveglia sino a tardi, forse per i troppi pensieri;
mi sento come se fossi appena scesa da un pullman dopo un viaggio interminabile in una strada piena di curve. Mi preparo velocemente ed esco da casa. Solo a quel punto mi rendo conto che qualcosa è cambiato: la cabina telefonica di fronte casa; quella cabina dove mi rifugiavo da piccola con Carlo ogni pomeriggio dopo la scuola, era il nostro rifugio segreto, nessuno la utilizzava più e un giorno, decidemmo che sarebbe diventata nostra. Noto che ha un diverso colore, più acceso, come se fosse stata tinteggiata da poco. Faccio un respiro e sento nei miei polmoni aria pulita, mi vengono subito in mente le mattinate al mare in cui puoi respirare appieno fino a farti scoppiare i polmoni. Strano, penso tra me e me.
“Beatrice!” Qualcuno mi chiama a gran voce, mi giro e vedo Carlo, corre verso di me visibilmente sconvolto, i capelli ricci spettinati e nel volto, il cuscino ancora stampato. “Menomale ti ho trovata!” dice col fiatone “Non immaginerai mai cosa è successo, roba da pazzi! Sono uscito da casa e mi è passata davanti una FIAT 300, quelle di cui ci parla sempre mia nonna, dei primi del ‘900!” “E allora?” chiedo perplessa “ E allora fin qui niente di strano. Ma poi venendo qua sono passato accanto al museo dell’Ara Pacis e al suo posto c’era solo la teca!
Un po’ perplessa gli racconto ciò che ho visto. Ci guardiamo negli occhi e pensiamo la stessa cosa. Dove siamo finiti? Che cosa è successo durante la notte? Ma soprattutto: com’è possibile tutto  ciò?
Ragioniamo un po’ ipotizzando le più strane spiegazioni quando, ad un certo punto, Carlo esclama: “E se fossimo stati catapultati in un’altra dimensione? Come se ci trovassimo in un film di De Sica! Vecchie osterie, quartieri abbandonati, malsani, gente comune che va a vedere la partita in bicicletta! Quelli si che erano bei tempi!” “Carlo devi smetterla di guardare Ladri di biciclette; sul serio, hai detto una gran cazzata!” “Non fare la moralista Bea e soprattutto esci dal tuo mondo in cui il cervello e la ragione regnano. Non pensare ai perché e vivi la tua vita come viene. Dai su andiamo a fare un giro e diamo un’occhiata!”.
Mi prende la mano e mi trascina via. Passiamo la mattinata ad avventurarci per la città e ad ogni passo che facciamo, mi convinco sempre di più dell’ipotesi di Carlo. Niente è più come prima; edifici, strade, marciapiedi. Tutto richiama una città dei primi del ‘900, poco prima della guerra, nei tempi in cui l’Italia era una bambina e si respirava ancora un’aria di rivoluzione; i giovani avevano ancora un briciolo di speranza per il futuro e nonostante la povertà si viveva serenamente. Ci s’interessava meno ai beni materiali e più ai sentimenti delle persone; ci si guardava in faccia. Le città erano affollate, ma ci si conosceva meglio, ci si scambiavano lettere, idee, pensieri e paure. Certo, gli ospedali non erano tanto puliti e all’avanguardia, scuole ce n’erano ben poche e non erano neanche ben organizzate. La città era specchio della vita delle persone. Aveva i suoi pregi e i suoi difetti, i suoi vizi e le sue storie da raccontare.
Ci troviamo davanti a quello che chiamiamo il quartiere dei ricchi e ci rendiamo conto che al posto dei grattacieli dei giorni nostri, ci sono semplici edifici a più piani, con le finestre rotte e i muri tappezzati di crepe. “Però!” esclama Carlo “Niente male ‘sti palazzi! Se quel riccone di Luca sapesse cosa c’era prima al posto del suo bell’attico la smetterebbe di fare il gradasso vantandosi e prendendoci in giro perché non siamo alla sua altezza.”. “Sul serio Carlo?! Tu lo ascolti ancora? Io ho smesso di dargli retta da tempo! E anche tu dovresti fare lo stesso.”.
Lui m’ignora e continua a camminare mentre io, ancora stordita dalla mattinata appena trascorsa, gli sto dietro e mi immergo nel mio mondo fatto di false speranze e sogni irrealizzabili cercando di capire come uscire da questa situazione. Non faccio in tempo a pensare che sento delle urla provenienti dal vecchio mercato, mi volto verso Carlo e ammicco per farmi seguire. Alla nostra sinistra una pescivendola con un’orata in mano si rivolge al marito sfidandolo: “Ao ‘mo te ce manno!” e il poveretto rassegnato si dirige verso il bancone. Il mercato è affollatissimo di persone e Carlo ed io siamo sempre più affascinati da questo “mondo”. Giriamo ancora un po’ e ad un certo punto, di fronte alla bancarella dell’antiquariato vediamo un uomo, vestito in modo diverso da tutti quelli incontrati finora e avvolto da un alone misterioso che ci spinge ad avvicinarci a lui. Non appena ci vede sgrana gli occhi e ci viene incontro a sua volta. “Chi siete voi?” ci chiede. “Io sono Beatrice, e questo è Carlo. Tu piuttosto come ti chiami?”
“Andrea, come mai siete qua? E soprattutto, perché siete vestiti in modo così strano?”
 “Beh, non so esattamente perché siamo qua, stamattina mi sono svegliata e mi sono ritrovata catapultata in questa dimensione parallela. Idem per Carlo.” - continuo - “ Vedessi come sei vestito tu!”
Il ragazzo ci guarda e scoppia in una fragorosa risata: “Dimensione parallela?! Questa mi è nuova! Da che mondo è mondo questa è Roma, e siamo nell’anno 1913.”
Carlo ed io ci guardiamo; 1913? Io sono sempre più perplessa mentre Carlo ci pensa un po’, alza le spallucce e dice ad Andrea: “Allora, che ci fai tu in giro nel mercato? Non dovresti essere a scuola?”
Andrea risponde: “Io non vado a scuola! La mia famiglia è povera e quindi mi manda a lavorare, sai qualcuno deve pur procurare qualcosa da mettere sotto i denti.”.
Carlo annuisce e risponde: “Wow, la nonna mi raccontava sempre che ai suoi tempi non tutti avevano la possibilità avere un’istruzione; non ci avevo mai realmente riflettuto. E pensare che a me fa schifo la scuola!”
Andrea storce il viso in disaccordo e risponde: “Se fossi stato in te, non avrei odiato la scuola, anzi. Se solo ne avessi avuta l’opportunità, avrei continuato gli studi e sarei diventato un avvocato! Oppure un insegnante!”
Guardo Andrea e sorrido mentre sogna a occhi aperti: “È bello vedere che hai grandi aspirazioni ma credimi, se vivessi ai giorni nostri, non riusciresti nemmeno a sognare, sembra che ogni persona che incontri nella vita ti si pari davanti e ti dica che ciò che desideri non lo avrai mai. Ti spezzano le ali ancor prima che tu abbia preso il volo e possibilmente si lamentano perché credono che non concluderemo mai niente nella vita.”
Lui si rattrista alle mie parole mentre Carlo annuisce dandomi ragione; “Esatto!” – aggiunge – “E anche se riesci a fare progetti per il futuro è davvero difficile trovare qualcuno che ti supporti. Ognuno pensa per se, funziona così.”.
Vediamo Andrea deluso da ciò che gli abbiamo detto che abbassa la testa rassegnato. Ma ad un tratto la rialza e dice: “Non avete mai pensato che un sbagliate anche voi? Avete mai provato a lottare? Per davvero intendo; non facendo rivolte o chissà che altro, la violenza non porta mai a niente. Piuttosto non dovete badare a ciò che dicono per ostacolavi, dovete agire! So che non è semplice ma provarci non ha mai ucciso nessuno. Io non ho avuto nessuna possibilità di proseguire nei miei studi ma voi potete. Approfittatene finché avete il tempo e la possibilità. E soprattutto aiutate quelli che hanno i vostri stessi sogni ma che non li possono realizzare!”.
Siamo nel bel mezzo della discussione quando sento qualcuno che da dietro mi scuote tenendomi per le spalle. Una strana nebbiolina mi acceca ed io mi sveglio urlando.




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