LA
CITTÀ DEI SOGNI INFRANTI
di
Rachele
Puddu
Mi
sveglio di scatto disturbata da un rumore indistinto proveniente dall’esterno.
Mi ritrovo con la testa ai piedi del letto, il libro aperto, le lenzuola a
terra e mi rendo conto di essere rimasta sveglia sino a tardi, forse per i
troppi pensieri;
mi sento come se fossi appena scesa da un pullman dopo un
viaggio interminabile in una strada piena di curve. Mi preparo velocemente ed
esco da casa. Solo a quel punto mi rendo conto che qualcosa è cambiato: la
cabina telefonica di fronte casa; quella cabina dove mi rifugiavo da piccola con
Carlo ogni pomeriggio dopo la scuola, era il nostro rifugio segreto, nessuno la
utilizzava più e un giorno, decidemmo che sarebbe diventata nostra. Noto che ha
un diverso colore, più acceso, come se fosse stata tinteggiata da poco. Faccio
un respiro e sento nei miei polmoni aria pulita, mi vengono subito in mente le
mattinate al mare in cui puoi respirare appieno fino a farti scoppiare i
polmoni. Strano, penso tra me e me.
“Beatrice!”
Qualcuno mi chiama a gran voce, mi giro e vedo Carlo, corre verso di me
visibilmente sconvolto, i capelli ricci spettinati e nel volto, il cuscino
ancora stampato. “Menomale ti ho trovata!” dice col fiatone “Non immaginerai
mai cosa è successo, roba da pazzi! Sono uscito da casa e mi è passata davanti
una FIAT 300, quelle di cui ci parla sempre mia nonna, dei primi del ‘900!” “E
allora?” chiedo perplessa “ E allora fin qui niente di strano. Ma poi venendo
qua sono passato accanto al museo dell’Ara Pacis e al suo posto c’era solo la
teca!
Un
po’ perplessa gli racconto ciò che ho visto. Ci guardiamo negli occhi e
pensiamo la stessa cosa. Dove siamo finiti? Che cosa è successo durante la
notte? Ma soprattutto: com’è possibile tutto ciò?
Ragioniamo
un po’ ipotizzando le più strane spiegazioni quando, ad un certo punto, Carlo
esclama: “E se fossimo stati catapultati in un’altra dimensione? Come se ci
trovassimo in un film di De Sica! Vecchie osterie, quartieri abbandonati,
malsani, gente comune che va a vedere la partita in bicicletta! Quelli si che
erano bei tempi!” “Carlo devi smetterla di guardare Ladri di biciclette; sul serio, hai detto una gran cazzata!” “Non
fare la moralista Bea e soprattutto esci dal tuo mondo in cui il cervello e la
ragione regnano. Non pensare ai perché e vivi la tua vita come viene. Dai su andiamo
a fare un giro e diamo un’occhiata!”.
Mi
prende la mano e mi trascina via. Passiamo la mattinata ad avventurarci per la
città e ad ogni passo che facciamo, mi convinco sempre di più dell’ipotesi di Carlo.
Niente è più come prima; edifici, strade, marciapiedi. Tutto richiama una città
dei primi del ‘900, poco prima della guerra, nei tempi in cui l’Italia era una
bambina e si respirava ancora un’aria di rivoluzione; i giovani avevano ancora
un briciolo di speranza per il futuro e nonostante la povertà si viveva
serenamente. Ci s’interessava meno ai beni materiali e più ai sentimenti delle
persone; ci si guardava in faccia. Le città erano affollate, ma ci si conosceva
meglio, ci si scambiavano lettere, idee, pensieri e paure. Certo, gli ospedali
non erano tanto puliti e all’avanguardia, scuole ce n’erano ben poche e non
erano neanche ben organizzate. La città era specchio della vita delle persone.
Aveva i suoi pregi e i suoi difetti, i suoi vizi e le sue storie da raccontare.
Ci
troviamo davanti a quello che chiamiamo il quartiere dei ricchi e ci rendiamo
conto che al posto dei grattacieli dei giorni nostri, ci sono semplici edifici
a più piani, con le finestre rotte e i muri tappezzati di crepe. “Però!”
esclama Carlo “Niente male ‘sti palazzi! Se quel riccone di Luca sapesse cosa
c’era prima al posto del suo bell’attico la smetterebbe di fare il gradasso
vantandosi e prendendoci in giro perché non siamo alla sua altezza.”. “Sul
serio Carlo?! Tu lo ascolti ancora? Io ho smesso di dargli retta da tempo! E
anche tu dovresti fare lo stesso.”.
Lui m’ignora
e continua a camminare mentre io, ancora stordita dalla mattinata appena
trascorsa, gli sto dietro e mi immergo nel mio mondo fatto di false speranze e
sogni irrealizzabili cercando di capire come uscire da questa situazione. Non
faccio in tempo a pensare che sento delle urla provenienti dal vecchio mercato,
mi volto verso Carlo e ammicco per farmi seguire. Alla nostra sinistra una
pescivendola con un’orata in mano si rivolge al marito sfidandolo: “Ao ‘mo te
ce manno!” e il poveretto rassegnato si dirige verso il bancone. Il mercato è
affollatissimo di persone e Carlo ed io siamo sempre più affascinati da questo
“mondo”. Giriamo ancora un po’ e ad un certo punto, di fronte alla bancarella
dell’antiquariato vediamo un uomo, vestito in modo diverso da tutti quelli
incontrati finora e avvolto da un alone misterioso che ci spinge ad avvicinarci
a lui. Non appena ci vede sgrana gli occhi e ci viene incontro a sua volta.
“Chi siete voi?” ci chiede. “Io sono Beatrice, e questo è Carlo. Tu piuttosto
come ti chiami?”
“Andrea,
come mai siete qua? E soprattutto, perché siete vestiti in modo così strano?”
“Beh, non so esattamente perché siamo qua,
stamattina mi sono svegliata e mi sono ritrovata catapultata in questa
dimensione parallela. Idem per Carlo.” - continuo - “ Vedessi come sei vestito
tu!”
Il
ragazzo ci guarda e scoppia in una fragorosa risata: “Dimensione parallela?!
Questa mi è nuova! Da che mondo è mondo questa è Roma, e siamo nell’anno 1913.”
Carlo
ed io ci guardiamo; 1913? Io sono sempre più perplessa mentre Carlo ci pensa un
po’, alza le spallucce e dice ad Andrea: “Allora, che ci fai tu in giro nel
mercato? Non dovresti essere a scuola?”
Andrea
risponde: “Io non vado a scuola! La mia famiglia è povera e quindi mi manda a
lavorare, sai qualcuno deve pur procurare qualcosa da mettere sotto i denti.”.
Carlo
annuisce e risponde: “Wow, la nonna mi raccontava sempre che ai suoi tempi non
tutti avevano la possibilità avere un’istruzione; non ci avevo mai realmente
riflettuto. E pensare che a me fa schifo la scuola!”
Andrea
storce il viso in disaccordo e risponde: “Se fossi stato in te, non avrei
odiato la scuola, anzi. Se solo ne avessi avuta l’opportunità, avrei continuato
gli studi e sarei diventato un avvocato! Oppure un insegnante!”
Guardo
Andrea e sorrido mentre sogna a occhi aperti: “È bello vedere che hai grandi
aspirazioni ma credimi, se vivessi ai giorni nostri, non riusciresti nemmeno a
sognare, sembra che ogni persona che incontri nella vita ti si pari davanti e
ti dica che ciò che desideri non lo avrai mai. Ti spezzano le ali ancor prima
che tu abbia preso il volo e possibilmente si lamentano perché credono che non
concluderemo mai niente nella vita.”
Lui
si rattrista alle mie parole mentre Carlo annuisce dandomi ragione; “Esatto!” –
aggiunge – “E anche se riesci a fare progetti per il futuro è davvero difficile
trovare qualcuno che ti supporti. Ognuno pensa per se, funziona così.”.
Vediamo
Andrea deluso da ciò che gli abbiamo detto che abbassa la testa rassegnato. Ma
ad un tratto la rialza e dice: “Non avete mai pensato che un sbagliate anche
voi? Avete mai provato a lottare? Per davvero intendo; non facendo rivolte o
chissà che altro, la violenza non porta mai a niente. Piuttosto non dovete
badare a ciò che dicono per ostacolavi, dovete agire! So che non è semplice ma
provarci non ha mai ucciso nessuno. Io non ho avuto nessuna possibilità di
proseguire nei miei studi ma voi potete. Approfittatene finché avete il tempo e
la possibilità. E soprattutto aiutate quelli che hanno i vostri stessi sogni ma
che non li possono realizzare!”.
Siamo
nel bel mezzo della discussione quando sento qualcuno che da dietro mi scuote
tenendomi per le spalle. Una strana nebbiolina mi acceca ed io mi sveglio
urlando.
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