venerdì 6 giugno 2014

Giorni sporchi


GIORNI SPORCHI
di Chiara Boi
 Questo posto non deve morire

I sogni sono la cosa più bella che una persona può avere.  Possedere una qualche aspettativa, un qualche progetto ti aiuta a vedere il mondo come un posto dove puoi realizzarti.
Il futuro di una persona, secondo il mio parere, è molto influenzato dal posto in cui si ha vissuto da giovani, dalla tua città natale. Della mia città mi ricordo molte cose che mi porto nel cuore: ho ancora in mente le strade, le viuzze, le piazze, dove potevi sentire quel particolare profumo che caratterizzava la città. I palazzi erano tutti molto bassi e a ogni angolo delle strade potevi incontrare quei tipici bar in cui tutti almeno una volta al giorno si fermavano per chiacchierare e  guardare la partita. Appena passavi, verso la mattina presto, sentivi l’odore fresco del caffè e guardando dentro le vetrine dei bar potevi scorgere gli uomini d’affari che di tutta fretta, tra una chiacchierata e un cornetto, facevano colazione prima di andare a lavoro. Ogni mattina, passando per la via che mi portava a scuola, mi fermavo sempre a guardare le donne e gli uomini anziani che dopo aver preso una sedietta si mettevano davanti ai portoni delle loro case per vedere chi passava, e mi chiedevo se anche a me, diventato vecchio, sarebbe toccata quella sorte un po triste e malinconica. Al ritorno da scuola guardavo  sempre il paesaggio che mi circondava e raramente prendevo la ferrovia che mi portava fino a casa. Preferivo incontrare la gente per strada, sentire l’odore di pane appena sfornato che proveniva dalla panetteria del mio quartiere, guardare la gente che dal balcone si prendeva il sole. Un’ usanza caratteristica della mia città erano le miriade di cose che potevi notare appese ad un balcone: scarpe, cd, bandiere, maglie, tutti i tipi di oggetti possibili ed inimmaginabili! Quando potevo mi fermavo a guardarli e a fotografarli. La mia città era una città bella, caratteristica e anche un po “rustica”. Non me ne sarei mai voluto andare da la, ne andavo fiero. Ma la vita che si faceva, quella no. Non era affatto bella e già da bambino avevo capito la realtà, come stavano i fatti, e questo mi ha cambiato la vita. Vivevo in un quartiere periferico, quasi ai limiti del centro abitato, degradato e dimenticato da tutti. Diventato adolescente iniziai a frequentare una compagnia di amici con i quali passai tutti gli anni del liceo. Eravamo delle persone apposto e in gamba, ma poi a causa di nuove e poco raccomandabili conoscenze, iniziammo a seguire la strada sbagliata. Cominciai ad andare male a scuola, a non seguire più i consigli degli amici che tenevano a me, a litigare con i miei, a provare nuove esperienze che però a molti di noi costarono care. Dei miei amici entrarono nel giro della droga, e anche io, come tutti, ho seguito quello che facevano gli altri. All’inizio pensavo che la vita che facevo tutto sommato non era male, che ero grande e che potevo fare quello che volevo. Ma mi resi conto presto che i nostri giorni di spensieratezza stavano svanendo. Ci eravamo troppo spinti oltre, avevamo troppo esagerato, ci credevamo grandi, quando in realtà non lo eravamo affatto. Ero circondato da questa realtà e a quanto pare ero l’unico a cui tutto questo stava iniziando a farmi paura. Ma non potevo farci niente, la moda era quella, non c’erano vie di mezzo, e chi aveva un idea diversa, chi non voleva subire quella realtà, chi non seguire la massa diventava uno sfigato. Si etichettavano le persone come fossero dei cibi in scatola. Allora io seguii la massa, pur di non essere etichettato. Così la mia vita da quel momento in poi cambiò per sempre. Mi ricordo ancora un giorno che mi segnò e che ancora oggi porto nel cuore. Eravamo  in primavera, e la città in quel periodo diventava un rifiorire di vita: gli alberi che contornavano le vie stavano iniziando a fiorire. Dappertutto potevi notare mandorli, cipressi, rose e ciliegi che sbocciavano e coloravano di rosa e di verde le strade. Il bel tempo stava arrivando, e la città come avvolta da una sorta di magia floreale si trasformava e diventava un paesaggio degno di un quadro di Claude Monet. Il sole ricominciava a splendere dopo esser stato per lunghi mesi in letargo e ora la luce copriva con i suoi raggi il bellissimo paesaggio primaverile. Anche io, condizionato dal bel tempo che iniziava a farsi strada, ero diventato più felice e stavo iniziando finalmente a vivere la mia vita con un po’ più di spensieratezza, nonostante la realtà che dovevo subire. Tutto in quei giorni era perfetto, e forse dentro di me stava nascendo l’idea di un vita normale, come quella di un ragazzino della mia età, senza la paura di essere giudicato. Ma stava andando troppo bene per essere vero, e di li a poco il magnifico periodo che stavo vivendo si sarebbe sgretolato e la grande felicità che provavo dentro, anche se non vera felicità, si sarebbe spenta. Un nostro compagno di classe, Giacomino, non era riuscito a sopportare il peso che si portava dentro. Era sempre stato, fin dalla prima superiore, trattato male dagli altri, insultato, e picchiato solo perché lui aveva deciso di non essere come gli altri, di non seguire il “gregge”. Anche io, illuso e arrogante come ero allora avevo contribuito alle offese che ogni giorno gli rivolgevano. Lui aveva compiuto la svolta, aveva deciso di prendere un'altra strada, di cambiare le cose, aveva avuto coraggio, quello che non avevo io, quello di essere diverso dagli altri. Ma questo coraggio lo pagò a caro prezzo. Infatti, la sua vita era diventata un incubo, e invece di trovare la libertà che si aspettava, lui, solo un illuso ragazzino, non aveva fatto i conti con quella realtà. Giacomino all’inizio aveva sopportato tutto questo e pensava di poter ritrovare la così tanta ricercata felicità di essere se stessi. Ma le cose purtroppo non andarono così, mai vanno per il verso giusto. Si uccise infatti qualche giorno dopo, tagliandosi le vene, non riuscendo a tenere il peso che portava. Un ragazzino innocente era stato ucciso dai suoi coetanei, da me. Mi sentivo in colpa, e sotto sotto mi considerava uguale a lui, solo che io non ero riuscito ad essere me stesso, a fare quel passo. Come lui anche altre persone, compreso me, volevano combattere contro questo società, riuscire ad avere la propria libertà, a lottare per un loro ideale. Lui aveva avuto il coraggio di andare oltre, di fare quel passo importante che però non lo aiutò. Appena mi dissero della morte del mio compagno di classe, la mia felicità d’un tratto si spense, i miei giorni felici svanirono, il sole che era dentro di me sbiadì a poco a poco per far spazio invece al senso di colpa e alla tristezza, che mi pervasero ogni giorno di più. La città che tanto amavo, di cui tanto andavo orgoglioso e dalla quale non sarei mai voluto andare via, iniziò a rivelarsi un triste incubo. Il sole e la luce chiara della primavera che illuminava le case, le foglie verdi appena germogliate degli alberi, le strade e le viuzze del centro, si trasformò improvvisamente, e la città mi parve essere scura e grigia. L’aria, prima solare e chiara, si tinse di color sangue, il sangue di tutte le vittime innocenti che la triste realtà si portava via. Da allora in poi i tempi dei giochi e della felicità svanirono davanti ai miei occhi. Tutto diventò cupo nei miei giorni, e la città che prima lodavo, era diventata una prigione di massima sicurezza, dalla quale mi sembrava impossibile uscire. Diversi anni dopo capì che stavo sbagliando strada, che quel comportamento non mi aiutava affatto e che se continuavo così non avrei mai concluso niente nella mia vita, che solo essendo me stesso sarei potuto diventare qualcuno. Dopo gli studi non riuscii a trovare lavoro come molti dei miei coetanei. La mia città che amavo tanto non mi avrebbe dato nessuna possibilità, nessun orizzonte. Mi sentivo in gabbia, senza un posto nel mondo. Così decisi di tentare la fortuna, di lasciare la mia gente, i miei luoghi per trovare in fondo qualcosa di migliore. Ora, passati quasi vent’anni dalla mia lontana adolescenza, mi ritrovo a parlare della mia vita passata con la tastiera di un computer, in una scrivania d’ufficio che si trova in una grande città. Anche io ho avuto coraggio, proprio come Giacomino, anch’io ho voluto rischiare, andare oltre il mondo che mi aveva fino d’allora circondato. Mi trasferii a New York senza sapere cosa mi avrebbe atteso, ma qualcosa dovevo pur farla per scappare dal mio passato che mi tormentava. Mi ritrovai così a vivere una realtà completamente diversa. Dalla piccola città in cui avevo sempre vissuto, caratteristica e unica nel suo genere, ma che non dava nessuna opportunità, dove le persone si conoscevano tutte e potevano prendere con calma la propria vita, mi ritrovai catapultato in una città enorme e moderna, dove le persone, quasi prese da una fretta frenetica, il caffè, che noi prendevamo con calma ai bar, lo bevono in fretta e furia camminando per la strada. Dove passando per le vie, puoi solo notare la grandezza della miriade degli edifici, tutti grigi e neri. Le strade sono sempre piene di macchine e taxi, e sui marciapiedi si riversano migliaia di persone. Ho trovato lavoro come giornalista in un importante azienda e ora come hobby scrivo libri. Così ho deciso di parlare del mio passato per non dimenticare che sono quel che sono anche grazie alle mie esperienze passate. Mi manca la mia città, mi manca la mia gente. Mi manca passeggiare tranquillamente tra le vie soleggiate e sentire il profumo del pane appena sfornato. Qua la nube dello smog impedisce ai raggi di passare. Mi manca il sole sardo. Certo la mia città non poteva offrirmi tanto, ma mi sono reso conto che infondo voglio bene alla mia terra, e che solo restando forse si poteva lottare per cambiare, per trovare un posto nel mondo.

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