Gentrify
di
Maria Letizia Mereu
Un
mese dopo aver firmato il contratto mi sono trasferita a Fonsarda.
Quando
a Sanremo Elisabetta Canalis non aveva saputo tradurre il gentrified di De Niro i
giornali non avevano fatto altro che parlarne per giorni. A essere sincera neppure
io saprei dire con esattezza cosa significhi gentrificazione, ma so per certo che
da quando abito a Fonsarda la città mi sembra diversa.
Per
dieci anni ho vissuto a Is Mirrionis. Per un cagliaritano dei quartieri alti una
fabbrica di spaccio e delinquenza. Sia chiaro: ai fuori sede senza pretese la
nomea non desta alcun timore. Da anni a cercare casa a ridosso sono medici,
insegnanti e impiegati. E Is Mirrionis è diventato un dormitorio come un altro,
economico e per la verità senza troppi disagi.
Dicono
che un tempo anche Fonsarda fosse così, ma ora è cambiata. Nessun ambulante per
strada, non un
venditore di ricci, neanche un fan inviperito del Cagliari che alla domenica pomeriggio fa saltare la tromba delle scale al primo cartellino dell’arbitro, senza dubbio cornuto.
venditore di ricci, neanche un fan inviperito del Cagliari che alla domenica pomeriggio fa saltare la tromba delle scale al primo cartellino dell’arbitro, senza dubbio cornuto.
A Fonsarda
la gente è perbene, saluta con riservatezza, ha il posto auto assegnato e il
garage per l’ammiraglia. E c’è persino spazio per le monofamiliari.
La
gente guadagna, ristruttura casa, mangia veg, compra al bio, meglio se a
chilometro zero, e le tisane all’equosolidale. A Fonsarda la gente va a teatro,
frequenta pilates o yoga due volte a settimana, il terzo giorno libero, nella
bella stagione, va in barca.
A Fonsarda
io sarei tecnicamente un pesce fuor d’acqua, ma si sa sono un tipo adattabile.
Non
so ancora molto dei miei vicini di casa se non che Annalisa Pesci mi ha detto
un giorno, in ascensore verso il sesto, che suo padre ha lavorato nelle Trade
Unions. Pensando fossero arie impigliate al suo più recente english course le ho chiesto se CGIL o UIL, e lei ha detto che no, suo
padre lavorava davvero nelle Trade Unions. Non saprei dire altro se non che, oltre
a yoga e pilates, nel suo terzo giorno libero ha violino, che però le rompe un
sacco studiare, è solo che ormai è a un esame e mezzo dal diploma e dunque
resiste. Poi c’è Paolo. Paolo Conti. Professione economista. Consulente dalla
Regione Sardegna. Nipote di avvocati, figlio di avvocati, fratello di avvocati,
e ora insignito del titolo di ribelle per aver tradito la familiare vocazione
alla giurisprudenza. Sua moglie Anna, una volta mi hanno pure invitato a cena,
lavora nella boutique di famiglia, una di quelle dove fanno ancora gli abiti
sartoriali. I cinesi, insomma, «non se la compreranno mai e forse Alice», la
loro figlia di cinque anni, «fra venti deciderà cosa farne».
Anche
i cani a Fonsarda sembrano diversi. A Is Mirrionis, lo sanno tutti, solo bulldog,
pit bull o al più qualche boxer incrociato e poi, dimenticavo, gli yorkshire in
casa degli anziani. Quelli che al market sotto casa saltano la fila per
poggiare sul banco la pila di scatolame, paté e bocconcini.
A Fonsarda,
solo nel mio palazzo, ho la certezza di aver avvistato un airedale terrier, un weimaraner
e, sopravvissuto alla moda dei Novanta, un dalmata, con collare rosso e
gioiello distintivo riportante nome proprio e numero di telefono del padrone,
che poi ho saputo essere Milena Felizzi, quella del quinto piano.
Milena
lavora alla clinica veterinaria di fronte al parco, per l’esattezza alle Terme di Fido, una mini Spa di seicento
metri quadri, in cui mi ha detto sono previsti persino corsi di ballo per cani.
«E i cani ballano?» le ho chiesto io, spalancando gli occhi come tutte le volte
in cui mi pare il mondo stia dando di matto, e lei dietro la chioma riccia ha
risposto divertita: «Per me lo fanno solo per i padroni!».
La
sua casa sta esattamente due piani sotto la mia, due piani che però fanno la
differenza: dalla finestra della mia sala nessun palazzo ostacola la vista e
Cagliari si espande libera verso le pianure del Campidano. In qualche modo è
che come se stessi dentro una torre di vedetta, di spalle al mare, pronta a
proteggermi da ogni assalto frontale. In qualche modo, quello spazio vasto e
sotto controllo mi ricollega a casa, dietro la cornice dei Sette Fratelli, dove
non manca molto perché le ginestre di Corsica inizino a fiorire e poi i ciliegi,
e a vederli, so già, l’infanzia sembrerà tornare vorace come allora.
Come
quando ero bambina e mia nonna nei giorni di vacanza mi portava a Cagliari a
vendere la frutta. Arrivavamo in treno alla stazione di Piazza Repubblica, e a
me spettava il trasporto delle uova. «Maneggiare con cautela», diceva lei.
Ci
fermavamo al mercato di San Benedetto, prima tappa la bottega del signor
Sergio, in cui si vendevano solo pane, latte e uova. Qualche giorno fa mi hanno
detto che negli anni a seguire ha aperto un altro negozio, poi un altro, poi un
altro ancora, fino a diventare il padrone della catena Ellemme.
A
dirmelo è stata sua figlia, se anche quando l’ho incontrata non sapevo ancora che
lo fosse. Quando l’ho incontrata sapevo solo che ammoniva l’energumeno al suo
fianco dicendo «Stai attento a non poggiare la Double Bag a terra, altrimenti
ti strozzo». E poi mi ha finalmente stretto la mano venendo al dunque. Quando
l’ho incontrata dovevo sapere solo quello
che c’era da sapere: il brand da
promuovere, il budget e la durata della campagna.
Tornando
a casa, quel giorno, non ho fatto che pensare alla nonna. Alla Double Bag rosso
fuoco, su per giù milleottocento euro, rossa come le ciliegie che portavamo dal
paese. Con milleottocento euro chissà quante uova, ho pensato guardando le mie
dentro il frigo.
Così
quando Luca mi ha chiamato per sapere dell’incontro io ho detto «Mica male la
delfina Ellemme… ».
Luca
sarebbe il mio capo, anche se da qualche mese ci frequentiamo pure fuori dal
lavoro. La verità è che lui al lavoro non viene mai. Cioè, l’agenzia è la sua
ma lui è un artista performativo e al lavoro viene solo per segnalare i clienti.
Il resto del tempo lo passa altrove. E quando ho aggiunto: «Iniziamo lunedì: li
ho convinti!», lui ha detto: «Peccato volevo portarti a Firenze, la settimana
prossima ho il finissage di Obl-IO».
Luca
si divide fra Cagliari e Firenze. Un bagno di bellezza, dice sempre lui. Così
viaggia. E quando non c’è io guardo in cielo le rotte degli aerei. Guardo il
cielo dalla finestra della mia casa. Qui, a Fonsarda.
A
trovarla mi ha aiutato lui. Luca ha detto che era un affare, e così mi sono
decisa. Ha anche detto che basterà ristrutturare i pavimenti ed effettuare
qualche piccolo lavoro e poi potrò rivenderla a breve, ricavando il giusto
margine.
Quando
Luca non c’è provo a pensarci su, la guardo, guardo le pareti, guardo fuori
alla finestra e penso che no, non mi riesce di immaginarmi - a breve - in un
altro posto lontano da questo. Ché in questo del resto ci sono appena arrivata.
Luca
dice sempre che devo stare attenta: non devo affezionarmi. È un tipo saggio,
lui. Dice che siamo di passaggio in tutte le cose. Che dobbiamo puntare in
alto. Che la bellezza è potere e come tutti i poteri non sazia mai abbastanza.
Per
la verità io ci provo. Da sola. Davanti allo specchio, io provo anche a
crederci. È solo che la mia faccia… Be’, la mia faccia è una gran testarda. E
quando sembra sul punto di crederci mi fissa torva e non fa altro che ripetere:
«You talkin' to me? You talkin' to me?».
Fortuna,
penso, che almeno questo so tradurlo.
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