venerdì 6 giugno 2014

Il cuore nei vicoli


Il cuore nei vicoli
Di
Simone Azzu
Ed è l'umanità
nelle sue vecchie mura
che resiste ad ogni usura
del cuore senza età.



Quando zio Riccardo era ormai coperto di fiori, ed attorno a lui le camminate erano
lente e nere, Luca indossò la sua giacca per l'occasione ed uscì dalla chiesa.

Fuori il gran sole delle tre del pomeriggio di una giornata fortunata di marzo, dentro l'atmosfera d'eterno saluto ad un uomo. Lo Zio non passava spesso a Sassari, anzi erano anni che non tornava. Luca lo vedeva più sulle tribune politiche della Rai che nel salotto di casa sua, e a lui tutto sommato non era mai mancato davvero. Aveva 84 anni e al di là dei pianti degli strettissimi non vi erano più gli estremi per ingiurare contro la vita. Luca si sedette sugli scalini del Duomo e davanti a lui c'erano tre panchine, una accanto all'altra, intervallate da alberi Sacri quanto i Patroni. Accese una sigaretta, la tenne stretta fra i denti mentre si spogliava del soprabito, e guardò davanti a sé. Tante volte quella piccola piazza fu per lui casa sull'albero, rifugio giovanile, ispirazione artistica, più semplicemente scenario di serenità. La panchina al centro era sua, questo era sicuro, e se in qualche giornata una coppietta si azzardava ad occuparla, non scendeva a compromessi, non si adagiava sotto altri alberi, semmai faceva il giro del Duomo, ordinava un caffè al bar, ma non tradiva il suo posto. Davanti a lui c'era sempre stata la certezza di un edificio incrollabile, e se litigava con Lucia era certo che un posto che l'accoglieva ci sarebbe stato, e se l'università era asfissiante, e se aveva appena perso un posto di lavoro, e se era una giornata cupa di novembre, di quelle che sembra offuschino ogni angolo del cuore, e se voleva affacciarsi al mondo in un giorno di primavera e sospirare fra sé e sé “Vita”... lui sapeva dove andare, sotto il suo braccio per toccare le nuvole, al centro della città. Lontano da ogni uomo, eppure così vicino, sotto il Duomo passavano clochard e uomini incravattati, studenti e chitarristi in cerca di passanti, cani a spasso, preti: per Luca la piazza del Duomo era la sintesi d'ogni carattere umano, d'ogni rappresentazione della natura, nelle sue controversie, nelle sue semplicità. Ma da quella prospettiva, sopra gli scalini, spalle al Duomo, mai. Proprio mentre stava per lanciare la sigaretta gli si sedette vicino una ragazza, nera negli abiti, con un gran sorriso, e stava in silenzio.
Il caso vuole che lo Zio Riccardo avesse sposato una donna facoltosa della Roma Bene, che avesse avuto una carriera folgorante fra i quotidiani nazionali come saggista ed opinionista, che fosse un uomo tutto d'un pezzo, che la Sardegna fosse rimasta come una piccola luce nei suoi ricordi di giovinezza, e che non l'avesse mai voluta condividere con nessuno che facesse parte della sua vita Romana. Così, al funerale, centinaia di colleghi, parenti più o meno sentiti, uomini d'immagine, di rappresentanza altolocata si precipitarono a Sassari per la prima volta, al suo funerale.
“Sei parente della Zia Rosaria?” Luca non ce la faceva a vederla lì, ad un palmo di distanza, che lo guardava e gli sorrideva senza proferire parola.
“No, sono la figlia di Domenico Prosperi, il giornalista de Il Tempo. É stato collega del Signor Riccardo qualche secolo fa”. Parlava a mezz'aria, trasognante, Luca non capiva se quel suo sorriso perso fosse voluto o meno.
“Ho capito. E tu l'hai seguito per una vacanza in Sardegna?”
“No, ero molto legata al Signor Riccardo”. Luca la guardò incredulo, lei pure con sfida; lui capì il gioco, lei rise, lui sorrise, lei sorrise, a lui venne meno il fiato.
“Andiamo a fare un giro? Ora usciranno tutti e di lacrime non ne voglio vedere. Ti va?”
“Come ti chiami?”
“Luca, tu?”
“Sofia. Dove mi porti?”
Non fecero neanche due passi che un pallone rimbalzò ai piedi di Sofia, che ne seguì la traiettoria e lo raccolse. Alzò lo sguardo e già un bambino affannato con la maglia di Zola al Cagliari lo chiedeva insistentemente senza parlare. C'erano il sudore, i suoi compagni ansiosi, gli occhi che dicevano “Ma insomma, che aspetti?”. Strappò la palla dalle mani di Sofia e la partita potè ricominciare. Le porte fra due alberi di almeno un secolo, le panchine della piazzetta erano gli spalti del pubblico gremito, e quanto impegno, quanta dedizione nel correre, segnare, esultare. E crescendo magari uno di loro sarà diventato un professionista, e mi piacerebbe ora chiedergli “Ma tu, tu, quando segnasti il gol che più ti fece battere il cuore?”.
Sofia manteneva un sorriso stupito ad ogni angolo che incrociava, ed ascoltava le parole lente di Luca. I vicoli erano sempre meno caldi e sempre più affollati, il pomeriggio avanzava fra una scoperta e l'altra. E quanto era contenta lei, e quanta energia ci metteva lui.
Passarono di fronte ad una piccola piazza, un tempo senz'altro uno dei centri della città, ora caduta in disuso in virtù delle periferie globalizzanti. “Vedi quell'angolo? Mio zio lì ci aprì una pescheria, qualche decennio fa. Mio zio e mio cugino, sei mesi per rimettere a posto il negozio, sei mesi per trovare i soldi. Non avevano mestiere, era l'ultima possibilità. Sai quanti pesci riuscirono a vendere il primo giorno?”
“Non so, non sono un'esperta”
“Neanche uno. Così per due settimane. La pescheria dovette chiudere, mio cugino andò in Arabia ad estrarre il petrolio. Ora è sposato con una donna egiziana e ha due bambini. Mio zio fece il muratore qualche altro anno e poi morì.”
“E se la pescheria fosse andata bene cosa sarebbe successo?”
“Beh, sarebbe ancora aperta. Mio cugino non avrebbe nostalgia di casa e avrebbe una moglie e dei bambini sardi. Tutto perché son stati venduti troppi pochi pesci”.
Non era abituata certo a questi racconti, Sofia, cresciuta ai Parioli romani, che aveva frequentato il Mamiani e aveva compagnie che gravitavano attorno all'alta finanza e alla politica. “Oggi parli tu, e quanto mi piace, ma non so se sarei così brava come te se venissi a Roma”.
“Ma come, Roma! Mica una qualunque..ce ne sarà da raccontare!”
“Ce n'è molto, ci scrivono ancora i libri, ma io non credo che riuscirei. Sembra che, anche se in una piccola città, tu abbia vissuto molte più cose di me”
“No, non è così. É che mi piace passeggiare”.
Si fecero le quattro del pomeriggio, le cinque, le sette. Con lo scivolare dei minuti Sofia eludeva il suo sorriso e si esprimeva sempre di più, e mai una parola deludeva Luca, ed una naturale armonia legava loro due, ed il mondo che avevano ad ogni nuovo vicolo.
Entrarono in un piccolo giardino, fra Piazza Castello e Piazza Azuni, ed era l'ora del tramonto, gli alberi si adagiavano alla notte e i cittadini uscivano dagli uffici, dalle scuole, dalle case, abitando il centro, ed attorno a loro era tutto un suono polifonico di voci che si univano e fondevano, in melodie di silenzi a volte, altre di racconti di anziani, di urla giovanili, di chiacchiere di studenti.
“Stenditi”.
“Dove, qui? Per terra?”.
“Qui, vieni, stenditi qui, ai piedi di questo busto”.
Lui le diede l'esempio, e la convinse col solo gesto. Si trovarono vicini, alle loro spalle il pavimento, sopra il cielo.
“Vedi questo giardino? Vedi quanta gente c'è attorno a noi? Nessuno ci vede, nessuno.”
Sofia alzò un istante lo sguardo, a cercare quello dei passanti. Tutti guardavano il proprio compagno della serata, tutti guardavano davanti a loro, a destra, a sinistra, ma mai dentro quel piccolo Eden.
“É vero, nessuno ci guarda. É come stare lontano da tutti, eppure siamo così vicini.”
“Non solo.” Lui alzò il braccio verso il cielo, poi col dito indicò a destra, e stava un pino, alla sinistra, e ne stava un altro, poi sopra di lui, e c'era il palazzone arancione, quello che, da quella prospettiva, davvero sembrava un grattacielo, come i suoi concittadini chiamavano, e poco più in là l'indice si spostò su un altro palazzone grigio, poi il cielo. “Così dentro la città e in mezzo ai suoi palazzi più maestosi, e allo stesso tempo così dentro gli alberi. Questo posto mi da l'idea dell'incontro perfetto fra quello che vuole la natura e quello che vuole l'uomo. E noi siamo qui dentro, e nessuno ci guarda, e siamo inattaccabili, come in una bolla di vetro. Noi in questo momento siamo i palazzi e siamo gli alberi, e siamo uomini.”
Sofia si chiedeva come potesse esistere tutto questo in un giardino di pochi metri. Ma non lo disse, e sorrise solo, davanti alla bellezza della semplicità, ed era così sincero quel sorriso: era gratitudine. Erano uomini, umani per davvero.
I vicoli erano bagnati dalla luce gialla dei lampioni, e si creavano ombre sui muri delle loro persone, e apparivano talvolta alti, talvolta minuscoli, e vedevano su un muro quanto le loro figure fossero vicine ad un passo, lontane ad un altro.
Nella piazza del Duomo i bambini erano rincasati, ma un pallone era stato nascosto in una fessura di un albero: era la promessa di un'altra partita, l'indomani. Sofia fece per sedersi sugli scalini, Luca la strinse un attimo e le diede la giusta via, verso la panchina, al centro fra i due alberi Sacri. La panchina era vuota, sopra vi erano scritte di coppie di quindicenni, e per quanto ingenue loro ne riconoscevano l'innocenza.
“Se tu tornerai qua, e magari non ci troveremo, vieni qua. Siediti, ti do il permesso. Stacci dall'alba al tramonto, o all'alba successiva se puoi. Stacci e vedi un mondo intero che cammina, gioca, predica, lavora, sorride”. Luca era affannato, non voleva dire che la giornata stava per concludersi, parlava lento e strascicava ogni sillaba, ma Sofia non accennava né alla disapprovazione, né tanto meno a ribattere. Ascoltava, e sapeva quanto quelle ultime parole avessero un peso particolare.
“Fra qualche ora ho l'aereo per Roma. Non so se tornerò qua, ma stai certo che da domani stesso inizierò anche io a passeggiare”.
Si salutarono, non si fecero promesse. Sofia aveva conosciuto i vicoli di una città, Sofia aveva conosciuto il cuore di Luca. Sofia era Luca, Luca era Sofia, e loro erano il mondo, e la città.

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