Ali osservava quella città
di
Irene Zedda
Ali
osservava quella città come si guarda un mare al tramonto. La sua vita era
sempre stata difficile. Non aveva mai conosciuto la pace di un posto dove
poteva sentirsi a casa.
Nella sua città la notte non si dormiva, si sperava. Si
sperava di riuscire a passare la notte. Si sperava che nessun talebano entrasse
in casa e uccidesse qualcuno. Ogni notte Ali sognava di andare via e partire,
di andare in un posto sereno, con tanti fiori e animali. Lui amava gli animali.
Li amava perché pensava che potessero capirlo di più di alcune persone, li
vedeva più umani di tutta la gente che lo circondava.
Quando Ali
usciva in strada non vedeva il verde e gli uccelli che cinguettavano, tutto
attorno a lui era una lunga distesa di macerie, case grigie e distrutte. I
bambini come lui non giocavano. Non cantavano. Non vivevano veramente. Per la
sua età lui e i suoi amici avevano visto più cose brutte di quanto si possa
immaginare. Gli spari, le urla, le preghiere delle persone prima di essere
uccise. Tutto questo non si poteva dimenticare. Rimaneva impresso nella mente
anche nei momenti un po’ più tranquilli.
Ora che Ali
guardava quella città, vedeva tutto quello che aveva sempre sognato nelle buie
notti d’inverno e nei caldi e soffocanti pomeriggi d’estate. Vedeva un parco grande
con una coppia di anziani che portavano a spasso il cane per l’ultima uscita
del giorno; una ragazza che camminava tranquilla con le cuffie nelle orecchie;
un gruppetto di ragazzi che scherzavano su come avrebbero passato la serata.
Tutto il mondo gli sembrava migliore. Poteva vedere negli occhi di quelle
persone la rinascita che lui aveva sempre sognato, ma poi, quasi come dopo
essersi svegliato da un sogno, pensava che tutta quella felicità non
apparteneva a lui. Lui, un povero bambino che fino ad allora aveva conosciuto
solo oppressione e tristezza, come avrebbe potuto vivere lì? Con quelle
persone. Con quella tranquillità. E i suoi amici? Sarebbero rimasti là, in
Afganistan, a lottare. Si sentiva vigliacco. Non si sentiva degno di tutto
questo.
Incominciava
a mancargli l’odore di minestrone che inondava ogni sera la cucina di sua
madre. Sapeva che era un pensiero assurdo ma forse si era così abituato alle
disgrazie che quando si trovava davanti qualcosa di bello pensava di non
meritarlo. Il solo pensiero che sua madre fosse rimasta là, in quella città,
tutta sola, lo distruggeva. Chi l'avrebbe consolata nelle buie notti d'inverno,
quando fuori dalla loro casa si sentivano gli spari e le grida? Chi l'avrebbe
rassicurata? Lui che con le sue piccole mani la stringeva forte a sé. Come se
un bambino di soli 7 anni potesse scacciare tutto il male che la circondava.
Come se un bambino potesse far tornare la tranquillità negli occhi della madre.
Quegli occhi pieni di lacrime e di terrore, tanto persi da non poter più
guardare negli occhi una persona senza averne paura.
Ripensando a
tutto questo gli tornarono in mente le storie che il nonno gli raccontava di
quando era giovane, durante le serate di primavera. C'era una ragazza,
raccontava, bellissima nel suo quartiere. Aveva degli occhi grandissimi, due
guance color pesca e un sorriso coinvolgente. Ogni giorno le si avvicinava con
uno stupido pretesto e la osservava parlare, solo per poterla sognare la notte
dopo. Dopo l'arrivo dei talebani non aveva più sentito parlare di lei. Solo una
volta, dopo tanti anni, l'aveva rivista. In fondo alla strada. Non si era
fermato a parlarle, ma aveva potuto notare quanto fosse cambiata. Gli occhi non
splendevano più. Erano spenti. E quella luce che vedeva ogni volta che la guardava
negli occhi; quella luce che racchiudeva dentro tutte le sue speranze, i suoi
sogni, era offuscata. Da bambina sognava di diventare una principessa, con un
lungo vestito rosa e un principe che la rispettasse e stimasse. Adesso invece
indossava un burqa color oceano che la copriva da capo a piedi. Si potevano
intravedere solo i suoi occhi. E il principe che tanto sognava non esisteva in
quella città. Quella città era troppo oppressa per poter contenere un sogno
così grande.
Ali sapeva
che tutto questo non poteva essere cambiato. Non con facilità. Il nonno gli
aveva anche raccontato di come da bambino trascorreva le sue giornate. Si
poteva ancora ascoltare la radio. Cantare era ancora lo svago che le persone
del quartiere potevano concedersi. Per non parlare dell'istruzione. Ali aveva
letto solo un libro in tutta la sua vita, ma gli era bastato per capire che era
la cosa più bella che potesse fare. Leggere lo portava lontano. Delle ali
grandissime rapivano la sua mente e lo facevano volare. Dopo che lo aveva
finito lo aveva riletto un'altra volta, e poi una volta ancora. L'aveva portato
con se anche lì, in quella nuova città. Era l'unica cosa che gli ricordava casa
sua. Gli sarebbe mancato se l'avesse lasciato là giù. Aveva già lasciato la
persona a cui teneva di più al mondo, non poteva lasciare anche quello. La
madre aveva speso quasi tutti i soldi che aveva per fargli fare quel viaggio.
Era salito su un camion grandissimo la notte prima. Aveva avuto una paura
tremenda. La paura che i talebani li scoprissero per prima cosa, ma quella che
con più insistenza riempiva la sua mente era di non resistere a quel viaggio.
Non avrebbe accettato che la madre avesse speso tutti i soldi per poi non
riuscire a salvarsi neanche lui. Lei quella sera gli aveva detto implorandolo:
- Quando tu sarai arrivato laggiù, una parte di me sarà con te, e questo non
puoi neanche immaginare quanto mi renda felice. Mi tranquillizza.-
Tutto questo gli aveva dato la forza di
continuare, anche se tutta la gente attorno a lui non lo tranquillizzava tanto.
Tutti i bambini che erano sul camion piangevano. Gli adulti pregavano. Lui non
sapeva cosa lo aspettasse quando sarebbe sceso ma non aveva scelta. O la
speranza o la morte, si ripetava fra sè. In fondo cos’è un bambino senza
speranza? Pensava.
Si trovava
nella sua stanza, stanco, sapeva che
quella notte non sarebbe riuscito a dormire, forse neanche in quelle
successive. I troppi pensieri occupavano la sua mente e non riusciva più a
liberarsene. Quella sera, prima di coricarsi, aveva guardato la tv. Era così
strana. A Kabul la televisione era proibita. Sperava che quell’ oggetto, così
frequentemente usato da tutti, non rispecchiasse realmente la gente di quella
città. In tutta l’ora che aveva passato a guardarla aveva visto solo
superficialità. Vedeva persone piangere per un rigore sbagliato in una partita
di calcio e restare indifferenti di fronte ad una bambina strappata alle mani
della madre ancora troppo giovane. Ali rimaneva sconvolto e pensava che se
quella doveva essere una vita felice allora preferiva non farne parte. Voleva
dire che la felicità, per come l’aveva vista lui, era tutta un’altra cosa e ne
era contento. Almeno poteva ritenersi fortunato perché se era riuscito ad affrontare
anche le cose più brutte, più crudeli, allora poteva riuscire ad apprezzare
tutte quelle cose che venivano ritenute “felici”.
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