di
Giovanna
Manca
La luna si affacciava su una
pozza di sangue, lei giaceva per terra con ancora addosso i vestiti di scena. Sirene
a violare il silenzio di una storia finita in un vicolo.
Un uomo raccontava
all’ispettore che l’aveva trovata lì, e che sì, la conosceva bene perché
lavorava nel suo locale. No, non faceva lo striptease. Proprio lei, no. La sua
era un’arte, e ci sapeva fare, era brava a ironizzare sullo spogliarello. Lei
non era come le altre, sapeva muoversi… ne avrebbe avuto da insegnare a quelle
quattro oche che sanno solo muovere il culo! L’uomo guardava quelli della
scientifica che eseguivano i rilievi, mentre una sigaretta gli penzolava dalle
labbra sottili. Gli davano fastidio i flash che illuminavano il vicolo della
mondezza, dei profilattici ancora pieni di storie vissute in tutta fretta.
…Non
ne posso più! 853 miglia fa ero felice. Ora preferirei vivere nel buco del culo
di un elefante piuttosto che continuare a stare qui!
All’improvviso
una pioggia viscida e bianca sulla mia testa. Erano migliaia, si impadronivano
dei miei capelli mi scivolavano negli occhi si insinuavano nelle narici tra le
labbra. Ero paralizzata. Sentivo sadiche risate. Corsi verso la fontana, con le mani gelide
aprii il rubinetto e con disperazione, ficcai la testa sotto il getto
dell’acqua ghiacciata e iniziai a strappare via quei maledetti vermi che
brulicavano impunemente su di me come fossi carne marcia.
No,
mia madre non deve sapere. Fine della storia.
Sono
ostaggio di tre bullette perverse e bastarde. Sto a pezzi. Non voglio più
andare a scuola. Le figlie del sindaco, del dirigente scolastico e
dell’assessore. Intoccabili.
Nessun
insegnante si schiererebbe dalla mia parte…
L’uomo rientrò nel suo
locale insieme all’ispettore, le luci erano soffuse, il fumo aleggiava
insistente come un personaggio che si rifiuta di lasciare la scena. In posti
come questo bazzicano dall’uomo grassoccio con la bava alla bocca, al fumatore
asfittico per il quale il cartello vietato fumare vale meno del suo annuncio
funebre. Nel locale soltanto le spogliarelliste e il barista. Il palco era
vuoto e l’uomo seduto al bancone con il suo whisky da quattro soldi raccontava:
«Una sera si è presentata qui,
coperta come una suora, non le avrei dato un soldo bucato, invece lei mi
propose uno spettacolo. Immagini le risate, figurarsi! Uno spettacolo per
quattro bavosi che si accontentano di tette e culi senza tanti complimenti.
Pensavo fosse impazzita:
burlesque in un merdaio come questo?
Lei mi disse che il burlesque
è ironia, fantasia e innocenza misto a erotismo. Mica pornografia spicciola! Mi
incuriosiva la sua determinazione, mi faceva ridere il suo aspetto buffo. Mi
chiese di potersi esibire per tre serate, gratis. Se non fossi stato
soddisfatto, sarebbe sparita.
La sera della prima
esibizione si chiuse nel camerino, dopo un’ora uscì un’altra donna. Non l’avrei
mai detto, e mi domandavo: ma che ci fa in questo posto di pervertiti e puttane
a poco prezzo?
Fu un successo. Da allora
tutte le notti era qui a fare il tutto esaurito.»
…Ho
fatto di tutto per passare inosservata. Invisibile, ecco cosa voglio essere.
Nascondermi dentro jeans sformati e maglie extralarge non è servito a niente. Alla
fine ho ceduto. Il peso delle umiliazioni era insopportabile. Ho raccontato
tutto a mia madre. Fine della scuola.
Ma
questi abiti informi mi si sono appiccicati addosso come
una seconda pelle. Mi ci vorranno secoli di analisi per sciogliere tutta la
rabbia che mi rode dentro.
Mia
madre si sente in colpa per avermi trascinata qui. Dopo la morte improvvisa di
mio padre, fuggì convinta che scappando oltreoceano il dolore svanisse. Mi
chiede spesso di perdonarla.
Lei,
una stilista di alta moda, si è ridotta a fare la sarta pur di lavorare qui. Ho
soltanto lei e passo le giornate ad aspettarla. Ho imparato a cucire “ché non
si sa mai” come dice lei. Fine della storia…
Le luci della città di notte
si confondevano con l’incipiente alba, si avvicinava l’ora di chiusura del
locale, ora in cui i nottambuli del fine settimana andavano a letto mentre gli
altri si apprestavano ad alzarsi.
Il corpo era ancora disteso
con la pozza di sangue attorno alla parrucca bionda. La vestaglia lasciava
intravvedere segni dell’ultima esibizione, sul seno sinistro, il reverse della
vestaglia scopriva un copri-capezzolo, le gambe erano lunghe e magre e i piedi
infilati in scarpe con tacchi diciassette.
Le prime luci illuminavano
la scena del crimine in attesa del medico legale. Teste facevano capolino dalla
porta che conduceva al vicolo tra un “ poveretta
”e l’altro.
Le spogliarelliste
rispondevano alle domande degli inquirenti, ma tutte concordavano sul fatto di
aver visto la burlesque per l’ultima volta entrare nel suo camerino. Per tutti
era andata via. Perché era così che faceva: fine dello spettacolo e via. Non si
sapeva dove.
…Sono
rimasta sola. Mia madre si è schiantata contro un camion. Sola. Continua a
rimbombare nel mio cervello. Sola. Chiusa in queste quattro mura da quasi un
mese. La luce dell’abat-jour che accendo all’imbrunire è l’unico segno di vita
in questa casa. Sola. Passo tutto il giorno al computer a far scorrere le
fotografie della mia famiglia: io, mia madre e mio padre.
Ripenso
alla mia città, dove parlavo una lingua diversa, dove sentivo il calore dei
miei amici, dei vicini di casa, dove tutto aveva un senso. Sola.
Stasera
mentre vagavo sulle strade del web ho visto un annuncio: “Tuffati
nell’affascinante mondo del burlesque. Per informazioni sul corso telefonare al
numero…” .
Curiosa
indago.
Antichi
amori vengono a galla. La nostalgia per le pirouette, il ronde de jambe e gli
esercizi alla sbarra che tanto amavo, bussa con prepotenza nella mia notte
buia… Avevo studiato danza per dieci anni prima di finire in questo inferno…
…Mi
sento goffa, inadeguata, vorrei fuggire. Ma questo è un mondo diverso, magico,
dove posso giocare e reinventarmi con ironia.
Guido
tutti i giorni per due ore per raggiungere la città dove posso sfogare la mia
anima burlesque. È come se fossi nata una seconda volta, partorita da un dolore
che sembrava non darmi scampo e, tra guanti, boa di piume e corsetti, ho
scoperto che potevo ancora ridere.
…Mentre
cucio gli abiti di scena, rivedo mia madre in questi gesti, il suo sorriso mi
accompagna mentre mi alleno con gli esercizi di danza.
I
giorni non passano più, tra l’indecisione e la paura di affrontare questo nuovo
sogno. Ho deciso per un locale notturno di spogliarello, abbastanza malfamato
da mettere a tacere la scarsa fiducia che ho in me stessa…
Quando all’imbrunire le luci
della città si accendono, il Red Hot si prepara a ospitare i suoi avventori.
Quando le luci della città si spengono il Red Hot diventa bollente.
…Era ormai sera, quando arrivai davanti alla
porta del locale. L’insegna al neon illuminava a intermittenza la strada
circostante. Un respiro profondo e entrai. All’interno il locale era ancora
vuoto, soltanto una musica di sottofondo e il barista. Mi avvicinai e chiesi di
poter parlare con il proprietario.
L’uomo
mi squadrò con curiosità, annegando lo sguardo nei miei vestiti più grandi di
una taglia. Sacrilega, in un posto dove era legge scoprire il più possibile.
Entrai
nello studio. Dietro la scrivania un uomo sulla trentina, un bicchiere di
whisky a metà e una sigaretta nel posacenere, con il fumo ancora vivo.
L’uomo
mi spogliò con quegli occhi addestrati, e in quel momento capii che avrei
dovuto osare di più.
Alla
fine, l’uomo si accese un’altra sigaretta e, annoiato, la lasciò penzolare
dall’angolo del labbro. “Hai sbagliato chiesa,” disse.
Non
mi arresi. Mi sedetti e gli spiegai che volevo fare uno spettacolo di
burlesque. Volevo accendere il suo locale come nessuna delle sue ragazze
sarebbe mai riuscita. La sua risata riempì la stanza. Fu un sì. Fine della
storia…
…
Sono nel mio camerino, ho appena finito la mia prima esibizione. Gli applausi
continuano.
Avevo
i brividi, ma ce l’ho fatta: su un lato del palco una sedia. Un classico. Sono
entrata in scena evitando di guardare il pubblico. Il forte odore di alcol mi
ubriacava, il fumo mi avvolgeva. Le
decolleté argento tacco quindici sfioravano il parquet permettendomi passi di
danza in perfetto equilibrio. Ero coperta da due grandi ventagli di piume blu.
Andai al centro del palco, con un colpo secco buttai a terra i ventagli, come
fossero due ali. Silenzio. Camminai sculettando verso la sedia, la trascinai al
centro del palco, davanti ai ventagli, e mi sedetti di spalle al pubblico.
Gancetto dopo gancetto, slacciai il bustino azzurro, inclinai la testa
all’indietro, e iniziai a sfilare i guanti con i denti, prima uno poi l’altro.
Sentivo respiri affannati sulla pelle, sguardi famelici, vogliosi. Mi alzai di
scatto, e sempre di spalle, mi tolsi la gonna in tulle argento, e come un colpo
di frusta la buttai a terra. Poggiai la gamba destra a novanta, sulla sedia,
feci scivolare con gesti sinuosi la giarrettiera e la lanciai al pubblico con
una espressione birichina. Terminai la performance facendo roteare i seni con i
copri-capezzoli argentati che filtravano la luce dei riflettori.
Per
essere la mia prima volta… Non è stata niente male…
Quell’ultima notte, dopo lo
spettacolo, la burlesque si chiuse in camerino. Si sdraiò sul divanetto con
addosso la vestaglia di seta. Sentiva un fiume caldo inondarle il cervello, la
stanza le girava attorno impazzita. Si alzò, le mancava l’aria, uscì dalla
porta sul retro, era confusa, non riusciva a parlare, a chiedere aiuto. Tutto
si fece più nebuloso e lontano. Cadde e batté la testa contro la punta di un
ferro arrugginito. Il sangue si liberò formando un lago rosso.
Quando il corpo esangue
della ragazza fu rimosso dall’asfalto freddo, un brano Della storia di una burlesque, il diario che lei aveva scritto in quegli
anni duri, si librò nell’aria. L’occhio di bue divenne un puntino, sino a
scomparire. I riflettori si spensero, e scrosciarono gli applausi.
Restringendo ancora il campo
si spensero anche le luci della città.
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