Diariaccio
di
Davide Ferreri
Ci
risiamo, la vita senza un soldo è una storiaccia. Tredici mesi di lavoro
ininterrotto e ho sperperato tutto, per lo più in cibo e sigarette.
Fan culo,
mi accorgo solo ora che mi servirebbero un paio di scarpe nuove, nessuno
darebbe un lavoro ad uno con delle scarpe come le mie.
Lo specchio dell’ingresso poi non è mai stato
vile come oggi, dice che ho una faccia da schifo e la pancia appesa ad ossa
stanche.
Ecco
ancora non mi abituo a quella suoneria.
-
Pronto. – gli faccio.
-
Ah scadeva oggi? –
-
Se proprio devi. –
-
Quanto è il danno? –
-
Lo dicevo io che sei un dritto. –
-
Perché dovrei? Tu mi fai risparmiare e io non
ti prendo per il culo. –
È l’assicuratore.
Settanta
luridi euro in meno all’anno, questa si che è
una manna. Guardo lo specchio e penso che se non si dà una raddrizzata ne
comprerò un altro. Già mi sento più
magro.
La
cucina è più che altro un cesso, una pentola rovesciata sbuca dal lavello, come
la testa di un veterano; tutto tace e la puzza dolciastra striscia fra i tubi
carnosi delle narici e raggiunge il cervello, menandogli uno schiaffo.
Nell’acqua putrida galleggiano scodelle e sul fondo giacciono i corpi immobili
delle stoviglie.
Sul
tavolo un posacenere con un canna bruciata per metà, ‘non è bene fumare dalla
mattina’ penso, mi ero ripromesso che avrei fumato solo dopo pranzo. L’orologio
della cucina segna qualcosa in più di mezzogiorno; un piccolo strappo si può
fare, minuto più, minuto meno. Mentre fumo e mi do una rilassata, sono sempre
più convinto che dedicherò il resto della giornata a ciò che amo: non fare
assolutamente una minchia.
Il ronzare insistente di un grosso moscone
verde arresta il silenzio, disegna dei cerchi nell’aria sfiorandomi le tempie e
STOCK! Va a schiantarsi sul vetro della porta che da sul balcone. Poi precipita
al pavimento, rimane immobile, tutto si ferma; finché con un balzo si mette a
schiena in su; strofina le zampette da vecchio, vibra, stende le ali venose e
decolla. Vortica, intercetta una scia e Stock! Ancora contro il vetro. ‘Bene’,
penso, ‘è uno tosto, lascerò la cucina in mani buone’.
Sto
seduto sulla tazza, quando squilla di
nuovo il telefono, attendo indeciso: è la mia vacanza d’accordo, ma ho spedito
i pezzi ad un concorso, con dei soldi in palio; tutto ruota attorno a quelli,
si sa, io sto in prima fila. Sicché mi tiro su i calzoni, certo che mi ripulirò
più tardi. Io uso rispondere seeeeeee, ossia con una i molto aperta.
-
Zino devi venire subito qua, è un casino. –
mi dice, che sembra abbia fatto la maratona.
Niente
segretaria dalle enormi tette, non ho vinto un soldo, è quel tritapalle di
Bullone che chiama dai giardini comunali. Spiego che non posso assolutamente
andare, giacché sarei in Turchia, Istanbul per l’esattezza, ‘non è possibile,
mi spiace’.
-
Ma ti ho chiamato a casa. – ribatte il
vigliacco.
Dico
che sono ad Instanbul lo stesso e lui che ha bisogno di me, è un’emergenza, mi
supplica.
-
Ok, basta, arrivo. Ma verrò a piedi. – taglio
io.
Esco
così presto che neanche mi rassetto il deretano, attraverso la cittadina finché
non raggiungo i giardinetti, tutti verdi e curati. Bullone è seduto sul
marciapiede con tutte e due le mani che gli cingono le tempie. È sudato e veste
una maglietta lacera, ha un taglio netto sul sopracciglio.
-
Non sapevo che fare. – mi dice con gli occhi
gonfi.
-
Dov’è Marione? –
Seguo
il suo sguardo fino alla macchina, dentro ci sta l’uomo bambino, sudato anche
lui, che pare gli abbiano gettato una secchiata. Il cambio ripiegato sulla sinistra
e le leve delle frecce strappate dalla tempesta. Marione guarda dritto nel
nulla e respira pesante. Il cuore batte forte pure a me e torno di fronte a
Bullone.
-
M’ha spaccato il culo. – dice senza
complimenti.
-
Lo vedo. – faccio io.
-
Gli ho detto d’abbassare il volume e si è
scatenato. –
-
Gliel’hai abbassato? –
-
Si, gliel’ho abbassato. –
-
Marione vuole il volume alto, così gli piace.
– fa l’altro dalla macchina.
Vacanze
finite, proprio così, mi tocca il pranzo da Marione. Perché io di lavoro faccio
questo, sto con Marione, andiamo in giro, lo porto a scuola e attacchiamo
figurine.
-
Accidenti a te Mario, potevi aspettare
un’altra settimana. – gli dico, mentre lo riporto a casa.
-
Volevi il volume alto, vero Mario? – si
domanda lui.
-
Eh lo so, ma io ero in vacanza. –
-
No, tu nessuna vacanza. Niente vacanza con
Marione. –
Ed
io penso che ha fatto fuori anche questo.
Il
pranzo da Mario non è uno scherzo, potrebbe essere una prova per i NOCS, che
non servono a granché, se non appunto a sopportare prove, quali un pranzo con
la zia di Mario.
È
come un rito, tutto con Mario è un rito con ogni cosa che si ripete invariata.
Entriamo
nel salotto ed io non ne ho nessuna voglia, eppure mi tocca farlo, perché
Bullone ha ceduto e dunque si parla con la zia dell’accaduto e di come con
Marione bisogna saperci fare, e quello là, lei l’aveva già capito, era uno
strano e Marione è tanto buono. ‘Si’, penso io, ‘ è un buon pugile’, gli avrà
assestato una decina di cazzotti e tutti dritti in faccia. Non è neanche scemo,
perché ad un certo punto si è puntato con la schiena allo sportello e ha
incominciato a sparare calci all’impazzata, che a Bullone gli ha raso al suolo
il cruscotto.
Per
la zia sono inezie e forse anche illazioni, mentre a me non me ne fotte niente,
voglio solo tornare a casa e proseguire con le vacanze, ma rimango incastrato lì.
Marione
è un uomo fatto, di un metro e novanta per centodieci chili, ha però le
passioni dei bambini, ma non è uno stupido, raggirarlo è quasi impossibile.
-
Venite a tavola. – fa lei, bionda e goffa nei
suoi oltre settant’anni.
Capisco
già dal sorriso di Marione che accadrà qualcosa. La zia trotta avanti e
indietro dai fornelli alla tavola e strascica i piedi, spostando il peso da una
ciabatta all’altra come un pugile suonato. È certo una gran cuoca, infatti,
prima che si esca dal seminato, mi riempio il piatto di ogni bene; poi inizia
il nuovo round.
Marione
è pronto, e il ghigno che ha stampato sulla faccia dovrebbe essere un avviso sufficiente,
tuttavia la zia fa il primo errore: mette la bottiglia d’acqua al centro della
tavola, io mastico e metto in salvo il bicchiere.
Uno
delle sfide di Mario è far entrare un litro e mezzo d’acqua in un bicchiere da
0,10; allora tutta zuppa sulle cosce la zia mi guarda supplice e io sollevo le
spalle. Poi l’insalata gettata in terra, la gara di velocità nell’ingurgitare
le portate, finché non tenta di infilare le sue manone fra le tette aggrinzite
della donna, allora devo entrare in scena, sventolando l’album Panini come una
muleta. Questo è il mio lavoro, finché non torna la mamma di Marione e allora
posso andare.
A
casa è tutto come prima, eccetto la puzza in cucina che si è fatta
insopportabile; la mosca è spirata. Mi faccio un altro porro e esco.
La serata è calda, sebbene
nella stretta via si incanali una corrente che rende la sosta piacevole e
stimola la conversazione. Raggiungo il caffè,
dove il barista assomiglia a Clarke Gable, mi saluta con voce cavernosa,
ricambio e ordino una birra.
Fra chiacchiere e belle
risate, d’improvviso mi bussano alle spalle. Voltandomi riconosco un vecchio
amico che mi abbraccia.
-
Dai andiamo via di qua. –
-
Va bene. – faccio io.
Passando
per il centro storico, ci fermiamo contro un portone buio, quello ha uno
specchietto che si porta dietro, e, con l’umido che c’è, deve armeggiare
parecchio con la scheda del bancomat.
‘Non
ho niente contro la bonza, la bamba, la coca, comunque la si chiami, è solo
roba che non fa per me’, lo penso ma non lo dico, no, no, no e giù una botta.
M’innervosisce, mi rende insofferente e poi non combino più niente e…
NSCHWWWwwummm!!!
‘Però è un buon tonico’ e vagli a spiegare che non faccio questa vita, che
lavoro per poco, ho delle responsabilità, sono in vacanza.
Giostra
di brindisi e storie sconclusionate, torno a casa.
Dalla
cucina non ci passo, neanche ci entro stavolta, non è affar mio. Ho lo stomaco
strizzato e il culo arrossato. Accendo la tv e il meglio che ci trovo è un
Ghezzi fuori sincrono con la sua canotta, non posso farcela. Controllerò la
posta, mi collego, certo ho un poco esagerato, una di quelle giornate lunghe,
che tardano a finire. Devo smettere di fumare, troppe sigarette fanno male al
cuore e poi dice che non ti si drizza più.
NON
TI SI DRIZZA PIU’: queste parole mi rimbalzano nel cervello, come una pulce paranoica.
Mollo la posta, solo un mucchio di cazzate, digito You Porn, mi sbottono la
patta e lo tiro fuori. La stanza è buia e sotto la luce bluastra dello schermo
attacco a menarmi l’uccello. Quella bella fighetta, ce l’avessi qua, le farei
cantare l’alleluja, Ohhhh!!! Oh, no!
Ancora lui, quel fanatico di Mao Tse Tung, non si può trastullare il membro di
fronte ad un totem ingiallito, lo farebbe ammosciare ad un ergastolano.
Mio
padre è comunista, perlomeno diceva d’esserlo e il suo feticcio dei sessanta è
appeso in salotto, un ritratto in filato di seta, roba da vomitare.
Non
si può, è svanita la passione, rimetto l’uccello in gabbia.
Beh,
sono così stanco che non riesco a dormire, diceva Cobain; afferro l’ultima
scheggia e l’avvicino appena alla fiamma, si monta come un sufflè e la getto
nell’impasto. Rollo come sempre e mi abbandono sul divano, sbuffando dense boccate
verso la finestra.
Fuori,
placida, riposa la notte. Deve essere necessariamente qualcosa, intendo
qualcosa più del giorno senza luce. Questa cittadina, la strada sotto la
finestra, con il suo asfalto sbriciolato, non sarà la stessa cosa domattina.
Ora tutto mostra il suo lato più vero, quello che costringe a misurarsi con se
stessi, come quel lampione, che giallo arancio proietta l’ombra sulla via e la
rimira: anche stanotte rimugina su di sé. I tetti umidi rimbalzano la luce
tenue della luna, si fanno chiari e lucidi, così dalla mia finestra vorrei
saltarci su e rotolarmi in tutta la città.
Che
bella vita di provincia! Un poco faticosa però. A furia di temere il vuoto, si
finisce a fare di tutto fuorché annoiarsi. Forse è un bene che le vacanze siano
finite.
Nessun commento:
Posta un commento