venerdì 6 giugno 2014

Diariaccio


Diariaccio
di
Davide Ferreri
Ci risiamo, la vita senza un soldo è una storiaccia. Tredici mesi di lavoro ininterrotto e ho sperperato tutto, per lo più in cibo e sigarette.
Fan culo, mi accorgo solo ora che mi servirebbero un paio di scarpe nuove, nessuno darebbe un lavoro ad uno con delle scarpe come le mie.
 Lo specchio dell’ingresso poi non è mai stato vile come oggi, dice che ho una faccia da schifo e la pancia appesa ad ossa stanche.
Ecco ancora non mi abituo a quella suoneria.
-         Pronto. – gli faccio.
-         Ah scadeva oggi? –
-         Se proprio devi. –
-         Quanto è il danno? –
-         Lo dicevo io che sei un dritto. –
-         Perché dovrei? Tu mi fai risparmiare e io non ti prendo per il culo. –
       È l’assicuratore.
Settanta luridi euro in meno all’anno, questa si che è  una manna. Guardo lo specchio e penso che se non si dà una raddrizzata ne comprerò  un altro. Già mi sento più magro.
La cucina è più che altro un cesso, una pentola rovesciata sbuca dal lavello, come la testa di un veterano; tutto tace e la puzza dolciastra striscia fra i tubi carnosi delle narici e raggiunge il cervello, menandogli uno schiaffo. Nell’acqua putrida galleggiano scodelle e sul fondo giacciono i corpi immobili delle stoviglie.
Sul tavolo un posacenere con un canna  bruciata per metà, ‘non è bene fumare dalla mattina’ penso, mi ero ripromesso che avrei fumato solo dopo pranzo. L’orologio della cucina segna qualcosa in più di mezzogiorno; un piccolo strappo si può fare, minuto più, minuto meno. Mentre fumo e mi do una rilassata, sono sempre più convinto che dedicherò il resto della giornata a ciò che amo: non fare assolutamente una minchia.
 Il ronzare insistente di un grosso moscone verde arresta il silenzio, disegna dei cerchi nell’aria sfiorandomi le tempie e STOCK! Va a schiantarsi sul vetro della porta che da sul balcone. Poi precipita al pavimento, rimane immobile, tutto si ferma; finché con un balzo si mette a schiena in su; strofina le zampette da vecchio, vibra, stende le ali venose e decolla. Vortica, intercetta una scia e Stock! Ancora contro il vetro. ‘Bene’, penso, ‘è uno tosto, lascerò la cucina in mani buone’.
Sto seduto sulla tazza, quando  squilla di nuovo il telefono, attendo indeciso: è la mia vacanza d’accordo, ma ho spedito i pezzi ad un concorso, con dei soldi in palio; tutto ruota attorno a quelli, si sa, io sto in prima fila. Sicché mi tiro su i calzoni, certo che mi ripulirò più tardi. Io uso rispondere seeeeeee, ossia con una i molto aperta.
-         Zino devi venire subito qua, è un casino. – mi dice, che sembra abbia fatto la maratona.
Niente segretaria dalle enormi tette, non ho vinto un soldo, è quel tritapalle di Bullone che chiama dai giardini comunali. Spiego che non posso assolutamente andare, giacché sarei in Turchia, Istanbul per l’esattezza, ‘non è possibile, mi spiace’.
-         Ma ti ho chiamato a casa. – ribatte il vigliacco.
Dico che sono ad Instanbul lo stesso e lui che ha bisogno di me, è un’emergenza, mi supplica.
-         Ok, basta, arrivo. Ma verrò a piedi. – taglio io.
Esco così presto che neanche mi rassetto il deretano, attraverso la cittadina finché non raggiungo i giardinetti, tutti verdi e curati. Bullone è seduto sul marciapiede con tutte e due le mani che gli cingono le tempie. È sudato e veste una maglietta lacera, ha un taglio netto sul sopracciglio.
-         Non sapevo che fare. – mi dice con gli occhi gonfi.
-         Dov’è Marione? –
Seguo il suo sguardo fino alla macchina, dentro ci sta l’uomo bambino, sudato anche lui, che pare gli abbiano gettato una secchiata. Il cambio ripiegato sulla sinistra e le leve delle frecce strappate dalla tempesta. Marione guarda dritto nel nulla e respira pesante. Il cuore batte forte pure a me e torno di fronte a Bullone.
-         M’ha spaccato il culo. – dice senza complimenti.
-         Lo vedo. – faccio io.
-         Gli ho detto d’abbassare il volume e si è scatenato. –
-         Gliel’hai abbassato? –
-         Si, gliel’ho abbassato. –
-         Marione vuole il volume alto, così gli piace. – fa l’altro dalla macchina.
Vacanze finite, proprio così, mi tocca il pranzo da Marione. Perché io di lavoro faccio questo, sto con Marione, andiamo in giro, lo porto a scuola e attacchiamo figurine.
-         Accidenti a te Mario, potevi aspettare un’altra settimana. – gli dico, mentre lo riporto a casa.
-         Volevi il volume alto, vero Mario? – si domanda lui.
-         Eh lo so, ma io ero in vacanza. –
-         No, tu nessuna vacanza. Niente vacanza con Marione. –
Ed io penso che ha fatto fuori anche questo.
Il pranzo da Mario non è uno scherzo, potrebbe essere una prova per i NOCS, che non servono a granché, se non appunto a sopportare prove, quali un pranzo con la zia di Mario.
È come un rito, tutto con Mario è un rito con ogni cosa che si ripete invariata.
Entriamo nel salotto ed io non ne ho nessuna voglia, eppure mi tocca farlo, perché Bullone ha ceduto e dunque si parla con la zia dell’accaduto e di come con Marione bisogna saperci fare, e quello là, lei l’aveva già capito, era uno strano e Marione è tanto buono. ‘Si’, penso io, ‘ è un buon pugile’, gli avrà assestato una decina di cazzotti e tutti dritti in faccia. Non è neanche scemo, perché ad un certo punto si è puntato con la schiena allo sportello e ha incominciato a sparare calci all’impazzata, che a Bullone gli ha raso al suolo il cruscotto.
Per la zia sono inezie e forse anche illazioni, mentre a me non me ne fotte niente, voglio solo tornare a casa e proseguire con le vacanze, ma rimango incastrato lì.
Marione è un uomo fatto, di un metro e novanta per centodieci chili, ha però le passioni dei bambini, ma non è uno stupido, raggirarlo è quasi impossibile.
-         Venite a tavola. – fa lei, bionda e goffa nei suoi oltre settant’anni.
Capisco già dal sorriso di Marione che accadrà qualcosa. La zia trotta avanti e indietro dai fornelli alla tavola e strascica i piedi, spostando il peso da una ciabatta all’altra come un pugile suonato. È certo una gran cuoca, infatti, prima che si esca dal seminato, mi riempio il piatto di ogni bene; poi inizia il nuovo round.
Marione è pronto, e il ghigno che ha stampato sulla faccia dovrebbe essere un avviso sufficiente, tuttavia la zia fa il primo errore: mette la bottiglia d’acqua al centro della tavola, io mastico e metto in salvo il bicchiere.
Uno delle sfide di Mario è far entrare un litro e mezzo d’acqua in un bicchiere da 0,10; allora tutta zuppa sulle cosce la zia mi guarda supplice e io sollevo le spalle. Poi l’insalata gettata in terra, la gara di velocità nell’ingurgitare le portate, finché non tenta di infilare le sue manone fra le tette aggrinzite della donna, allora devo entrare in scena, sventolando l’album Panini come una muleta. Questo è il mio lavoro, finché non torna la mamma di Marione e allora posso andare.
A casa è tutto come prima, eccetto la puzza in cucina che si è fatta insopportabile; la mosca è spirata. Mi faccio un altro porro e esco.
La serata è calda, sebbene nella stretta via si incanali una corrente che rende la sosta piacevole e stimola la conversazione. Raggiungo il caffè,  dove il barista assomiglia a Clarke Gable, mi saluta con voce cavernosa, ricambio e ordino una birra.
Fra chiacchiere e belle risate, d’improvviso  mi bussano alle spalle. Voltandomi riconosco un vecchio amico che mi abbraccia.
-         Dai andiamo via di qua. –
-         Va bene. – faccio io.
Passando per il centro storico, ci fermiamo contro un portone buio, quello ha uno specchietto che si porta dietro, e, con l’umido che c’è, deve armeggiare parecchio con la scheda del bancomat.
‘Non ho niente contro la bonza, la bamba, la coca, comunque la si chiami, è solo roba che non fa per me’, lo penso ma non lo dico, no, no, no e giù una botta. M’innervosisce, mi rende insofferente e poi non combino più niente e…
NSCHWWWwwummm!!! ‘Però è un buon tonico’ e vagli a spiegare che non faccio questa vita, che lavoro per poco, ho delle responsabilità, sono in vacanza.
Giostra di brindisi e storie sconclusionate, torno a casa.
Dalla cucina non ci passo, neanche ci entro stavolta, non è affar mio. Ho lo stomaco strizzato e il culo arrossato. Accendo la tv e il meglio che ci trovo è un Ghezzi fuori sincrono con la sua canotta, non posso farcela. Controllerò la posta, mi collego, certo ho un poco esagerato, una di quelle giornate lunghe, che tardano a finire. Devo smettere di fumare, troppe sigarette fanno male al cuore e poi dice che non ti si drizza più.
NON TI SI DRIZZA PIU’: queste parole mi rimbalzano nel cervello, come una pulce paranoica. Mollo la posta, solo un mucchio di cazzate, digito You Porn, mi sbottono la patta e lo tiro fuori. La stanza è buia e sotto la luce bluastra dello schermo attacco a menarmi l’uccello. Quella bella fighetta, ce l’avessi qua, le farei cantare l’alleluja,  Ohhhh!!! Oh, no! Ancora lui, quel fanatico di Mao Tse Tung, non si può trastullare il membro di fronte ad un totem ingiallito, lo farebbe ammosciare ad un ergastolano.
Mio padre è comunista, perlomeno diceva d’esserlo e il suo feticcio dei sessanta è appeso in salotto, un ritratto in filato di seta, roba da vomitare.
Non si può, è svanita la passione, rimetto l’uccello in gabbia.
Beh, sono così stanco che non riesco a dormire, diceva Cobain; afferro l’ultima scheggia e l’avvicino appena alla fiamma, si monta come un sufflè e la getto nell’impasto. Rollo come sempre e mi abbandono sul divano, sbuffando dense boccate verso la finestra.
Fuori, placida, riposa la notte. Deve essere necessariamente qualcosa, intendo qualcosa più del giorno senza luce. Questa cittadina, la strada sotto la finestra, con il suo asfalto sbriciolato, non sarà la stessa cosa domattina. Ora tutto mostra il suo lato più vero, quello che costringe a misurarsi con se stessi, come quel lampione, che giallo arancio proietta l’ombra sulla via e la rimira: anche stanotte rimugina su di sé. I tetti umidi rimbalzano la luce tenue della luna, si fanno chiari e lucidi, così dalla mia finestra vorrei saltarci su e rotolarmi in tutta la città.

Che bella vita di provincia! Un poco faticosa però. A furia di temere il vuoto, si finisce a fare di tutto fuorché annoiarsi. Forse è un bene che le vacanze siano finite.   

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