venerdì 6 giugno 2014

Accadde un venerdì


Accadde un venerdì
di
Nicola Careddu


Anna aveva appena strappato la tasca del suo paltò, ed era piuttosto infastidita dalla cosa. Le era già successo, sempre di venerdì, e sempre per via di quei maledetti paletti arrugginiti, vecchi soldatini posti ad impettita ed inutile difesa del marciapiede.
Sarebbe stato difficile ricucirla, perché lo strappo era obliquo. "È venerdì" si disse, scuotendo una testa piena di lunghi riccioli castani. Ripiegò il brandello di tela, per evitare danni peggiori,  poi tornò ai suoi tarli: non le avrebbero rinnovato il contratto da segretaria, proprio quando pensava di aver finalmente trovato un po' di stabilità.
Viveva in un piccolo bilocale, preso in affitto vicino all'Università. Un viottolo carino, con le facciate delle case rifatte da poco, e tanti fiori colorati ad abbellire i balconi. Fresca di patente, aveva anche pensato di acquistare un piccolo mezzo usato, per poter essere più libera ed indipendente. Iniziava a nutrire una qualche velleità di poter completare gli studi accademici, di riuscire a chiudere almeno uno dei tanti capitoli ancora aperti nella sua vita. Ma tutto rischiava di saltare, travolto dagli ultimi eventi. Anna, però, era abituata a gestire situazioni complesse come quella che stava vivendo, ed era stata sempre molto positiva, quanto bastava per trovare il coraggio di ripartire. Socchiuse gli occhi, scansando così un cattivo pensiero. Erano belli i suoi occhi: sembrava ridessero.
Continuò a salire lungo il Corso, passando leggera sui cordoli in granito.
Più o meno tutti, finito il lavoro, si riversavano nei locali, per una birra o un analcolico. Il solito aperitivo del solito week end, passato a lamentarsi della noia, ed inevitabilmente concluso nei quattro locali alla moda.
Anna aveva scelto di staccarsi dal contesto che la circondava. Evitava di farsi trovare, spegneva il cellulare e spendeva il proprio tempo fra vecchi libri e l'intera collezione di Van Morrison. Mille i fogli graffiati dalla sua matita smangiucchiata. Disegni che raccontavano il mosaico di tetti e terrazzi del centro storico sassarese, così come lo vedeva dal ballatoio cui aveva accesso.
Faceva stranamente caldo, quel venerdì. “È silenzioso ed ostile”, pensò. La parte più alta della lunga salita raccontava di una Sassari più viva, meno desolante di quella descritta dal tratto che aveva già superato. La crisi di inizio millennio stava modificando le abitudini di tutti, e la città continuava ad accartocciarsi su sé stessa, a consumarsi, quasi indifesa, sorpresa, incapace di comprendere il nuovo sistema del quale faceva parte. Forse anche attonita, come quel vecchio che Anna vedeva spesso dalla sua finestra sul mondo: stava seduto davanti all'uscio di casa, sommerso e confuso dalla rumorosa babele di lingue che non erano la sua, che non gli davano modo di spiegare il disagio di chi è rimasto troppo solo e troppo indietro; di chi, talvolta, non si sente parte di un mondo troppo veloce, e lo vive come crudele ed indifferente, come qualcosa dalla quale ci si debba comunque difendere.
Anna svoltò a destra, costeggiando la ZTL, per evitare quella nella quale si trovavano i locali più frequentati. Non aveva intenzione di incontrare qualche nuovo ex collega, di doversi sentire obbligata a trovare giustificazioni. Di sicuro non cercava la compassione di nessuno. Le avrebbe fatto piacere parlarne con qualcuno, magari col suo ragazzo. Ma lei non lo aveva un ragazzo, non più, da quando lui aveva trovato lavoro a Londra, e dopo un po' non s'era più fatto sentire. Londra, con le sue “infinite occasioni per reinventarsi una vita”, come era solito dirle.
Decise di tagliare per la parte più vecchia del centro storico: avrebbe accorciato di parecchio, sicuramente più di quanto avesse messo in conto. Prese la direzione di casa, attraverso un dedalo di viuzze, a volte affascinanti, a volte fastidiosamente appestate da siringhe, vetri rotti e  solitudine. Un numero infinito di piccole case dagli intonaci scrostati, addossate le une alle altre, differenti per forma e dimensione. Una miriade di finestre disallineate e socchiuse, che guardavano, studiavano, protette da persiane del colore della polvere stratificata. Case alle quali accedere attraverso porte, bocche mezzo aperte, che sussurravano, sommessamente, incomprensibili cantilene. Case che forse avrebbero voluto urlare, ma non potevano farlo. Non potevano più, trasformate in antri che sottendevano ombre. Accennate, ma stranamente solide.
Forse parlavano fra loro, raccontando di vite andate, perse nella nebbia di una memoria fosca. Di solitudini mal digerite, di amori finiti male, di sesso rubato. Di sogni, aspettative e speranze. Ma anche di gioie immense, di amicizia, di bambini che giocavano, alla perenne ricerca di mostri e cavalieri. Forse esistevano solo nel vuoto di un universo che non percepiamo distintamente, che ci attraversa, magari proprio quando abbiamo la sensazione di non essere soli. Quando ci voltiamo per guardare indietro, per capire se qualcuno non ci stia davvero spiando. Ci giriamo, con la certezza di trovarlo là, appoggiato ad un muro mai sfiorato da raggi di un sole incapace di scaldare, di liberare dall'umido, di strappare quella realtà ad un torpore infinito, al quale è quasi impossibile non arrendersi.
Era così per Anna, che contava i passi verso casa, assalita da una leggera inquietudine. Si impose di accelerare, anche se non la stava seguendo proprio nessuno. Forse.
Le vie erano strette, e si avvertiva un fastidioso e penetrante odore di muffa, di umidità stantia, incrostata nel tempo. Per distrarsi ripiegò sulla musica, che arrivava dagli auricolari del lettore mp3. Alzò leggermente il volume, cercando di mitigare, con un suono piacevole, quel contesto così opprimente. Cominciò a rilassarsi: stava per giungere a casa; e il battito del suo cuore rallentava, tornando normale.
Alcuni lavori in corso sul lastricato più frequentato e familiare, la costrinsero a modificare leggermente l'itinerario che stava seguendo. Tornò indietro, passando per un vicolo che non ricordava, che non era più lungo di una cinquantina di metri. Non vedeva l'ora di chiudersi il portone di casa alle spalle, fare una doccia e sdraiarsi sul piccolo divano.
“Perché aver paura?”. Si diede della stupida.
Sentì freddo, improvvisamente; tanto freddo. Un'ombra si era rapidamente allungata alla sua destra. Gelida, forte, la richiamò a sé senza fare alcun rumore, trascinandola dentro un piccolo androne buio, attraverso una bocca storta e feroce, che si richiuse leggermente, nascondendo le proprie miserie. Le parve di sentirla ridere, ma poteva essere solo un'impressione. Le cuffiette si persero nella polvere che ricopriva il pavimento.
Anna cerco di muoversi, di divincolarsi, ma senza riuscirci. Era bloccata alle spalle da una morsa che non le permetteva di liberarsi, che la stringeva, impedendole quasi di respirare. Provò ad urlare, senza successo: non riusciva ad emettere alcun suono. Le sembrava di trovarsi in una dimensione distorta; non una via d'uscita, una via di ritorno da quella realtà di solitudine e dolore. Tutto intorno era buio, ma lei percepiva il movimento delle pareti in pietra cantone, come se la casa deglutisse lentamente, come se si stesse preparando ad inghiottirla. Paziente ed implacabile, dopo anni di attesa, era pronta a rivivere momenti come quelli, a gustarli con ragionata ed esasperante ferocia.
Anna temeva d'essere l'ennesima vittima del crimine più odioso e devastante per una donna, quello che avrebbe lasciato un segno indelebile nella memoria, una cicatrice pulsante sull'anima, più che sul corpo, e per questo ancora più terribile ed angosciante. Sarebbe stata ancora più sola di prima, più debole, più vulnerabile. Più della paura, forse, la bloccava la certezza di una solitudine senza soluzione. Il suo viso si coprì di lacrime, e lei smise di lottare, arrendendosi a quel terribile sentimento, ancor prima che a quella presa che non smetteva di incatenarla.
Non accadde nulla di ciò che aveva temuto. C'era solo una densa nebbia, che arrivava a coprirle gli occhi, quegli occhi che erano sempre stati luminosi e sorridenti. Fu sorpresa da un dolore improvviso, intenso. Riuscì ad emettere un rauco rantolo, presto soffocato dalla lama seghettata che le strappava via la vita.
Cadde pesantemente, con la gola squarciata. Grondava sangue quando, con un tonfo sordo, batté la tempia sulla soglia. Avvertì appena il suo assassino che la scavalcava, uscendo dalla gola della casa, anticipato da una porta che si apriva senza essere stata spinta. Un rivolo di sangue superò la lastra di travertino, correndo lungo la base della parete esterna, sino alla pietra carraia all'angolo della strada. Sottile, scuro, denso. L'ombra si allontanava rapidamente, senza testimoni, senza guardarsi mai indietro. Ma Anna non poteva più vederlo. Non aveva più chi gli aveva dato la vita, non avrebbe mai saputo chi l'avesse rubata.
Nessuno si affacciò dalle finestre polverose e tetre. Nessuno urlò dall'interno di quegli antri scuri e profondi, come nel peggiore degli incubi che non si riescono a dimenticare. Si percepiva solo una sommessa cantilena. Forse quella casa, quella porta, quell'androne buio si trovavano davvero in un'altra dimensione, dentro la città. Forse non era affatto un mondo parallelo, forse è la nostra stessa realtà ad attraversare bruscamente mondi diversi, lontani nel tempo e nello spazio, ma che si riavvicinano, collimano per attimi o per millenni, per poi separarsi, senza guardarsi indietro. Le case continuavano a parlare fra loro, forse raccontandosi l'accaduto, facendosi coraggio a vicenda, mentre si avvicinava rapidamente la sera, e con essa il buio. Lontane, arrivavano urla di bimbi.
Anna morì a trent'anni, senza un perché. Accadde un venerdì pomeriggio, di un inverno insolitamente caldo. Nessuno la ricorda più, e nessuno seppe mai che fine avesse fatto quella bella ragazza riccia.

Aveva dei bellissimi occhi, che ridevano.

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