Accadde un venerdì
di
Nicola Careddu
Anna aveva appena strappato la tasca del suo paltò, ed
era piuttosto infastidita dalla cosa. Le era già successo, sempre di venerdì, e
sempre per via di quei maledetti paletti arrugginiti, vecchi soldatini posti ad
impettita ed inutile difesa del marciapiede.
Sarebbe stato difficile ricucirla,
perché lo strappo era obliquo. "È venerdì" si disse, scuotendo una
testa piena di lunghi riccioli castani. Ripiegò il brandello di tela, per
evitare danni peggiori, poi tornò ai
suoi tarli: non le avrebbero rinnovato il contratto da segretaria, proprio
quando pensava di aver finalmente trovato un po' di stabilità.
Viveva in un piccolo bilocale, preso in affitto vicino
all'Università. Un viottolo carino, con le facciate delle case rifatte da poco,
e tanti fiori colorati ad abbellire i balconi. Fresca di patente, aveva anche
pensato di acquistare un piccolo mezzo usato, per poter essere più libera ed
indipendente. Iniziava a nutrire una qualche velleità di poter completare gli studi
accademici, di riuscire a chiudere almeno uno dei tanti capitoli ancora aperti
nella sua vita. Ma tutto rischiava di saltare, travolto dagli ultimi eventi.
Anna, però, era abituata a gestire situazioni complesse come quella che
stava vivendo, ed era stata sempre molto positiva, quanto bastava per trovare
il coraggio di ripartire. Socchiuse gli occhi, scansando così un cattivo
pensiero. Erano belli i suoi occhi: sembrava ridessero.
Continuò a salire lungo il Corso, passando leggera
sui cordoli in granito.
Più o meno tutti, finito il lavoro, si riversavano nei
locali, per una birra o un analcolico. Il solito aperitivo del solito week end,
passato a lamentarsi della noia, ed inevitabilmente concluso nei quattro locali
alla moda.
Anna aveva scelto di staccarsi dal contesto che la
circondava. Evitava di farsi trovare, spegneva il cellulare e spendeva il
proprio tempo fra vecchi libri e l'intera collezione di Van Morrison. Mille i
fogli graffiati dalla sua matita smangiucchiata. Disegni che raccontavano il
mosaico di tetti e terrazzi del centro storico sassarese, così come lo vedeva
dal ballatoio cui aveva accesso.
Faceva stranamente caldo, quel venerdì. “È silenzioso ed
ostile”, pensò. La parte più alta della lunga salita raccontava di una Sassari
più viva, meno desolante di quella descritta dal tratto che aveva già superato.
La crisi di inizio millennio stava modificando le abitudini di tutti, e la
città continuava ad accartocciarsi su sé stessa, a consumarsi, quasi indifesa,
sorpresa, incapace di comprendere il nuovo sistema del quale faceva
parte. Forse anche attonita, come quel vecchio che Anna vedeva spesso dalla sua
finestra sul mondo: stava seduto davanti all'uscio di casa, sommerso e confuso
dalla rumorosa babele di lingue che non erano la sua, che non gli davano modo
di spiegare il disagio di chi è rimasto troppo solo e troppo indietro; di chi,
talvolta, non si sente parte di un mondo troppo veloce, e lo vive come crudele
ed indifferente, come qualcosa dalla quale ci si debba comunque difendere.
Anna svoltò a destra, costeggiando la ZTL, per
evitare quella nella quale si trovavano i locali più frequentati. Non aveva
intenzione di incontrare qualche nuovo ex collega, di doversi sentire obbligata
a trovare giustificazioni. Di sicuro non cercava la compassione di nessuno. Le
avrebbe fatto piacere parlarne con qualcuno, magari col suo ragazzo. Ma lei non
lo aveva un ragazzo, non più, da quando lui aveva trovato lavoro a Londra, e
dopo un po' non s'era più fatto sentire. Londra, con le sue “infinite occasioni
per reinventarsi una vita”, come era solito dirle.
Decise di tagliare per la parte più vecchia del centro
storico: avrebbe accorciato di parecchio, sicuramente più di quanto avesse
messo in conto. Prese la direzione di casa, attraverso un dedalo di viuzze, a volte
affascinanti, a volte fastidiosamente appestate da siringhe, vetri rotti e solitudine. Un numero infinito di piccole
case dagli intonaci scrostati, addossate le une alle altre, differenti per
forma e dimensione. Una miriade di finestre disallineate e socchiuse, che
guardavano, studiavano, protette da persiane del colore della polvere
stratificata. Case alle quali accedere attraverso porte, bocche mezzo aperte,
che sussurravano, sommessamente, incomprensibili cantilene. Case che forse
avrebbero voluto urlare, ma non potevano farlo. Non potevano più, trasformate
in antri che sottendevano ombre. Accennate, ma stranamente solide.
Forse parlavano fra loro, raccontando di vite andate,
perse nella nebbia di una memoria fosca. Di solitudini mal digerite, di amori
finiti male, di sesso rubato. Di sogni, aspettative e speranze. Ma anche di
gioie immense, di amicizia, di bambini che giocavano, alla perenne ricerca di
mostri e cavalieri. Forse esistevano solo nel vuoto di un universo che non
percepiamo distintamente, che ci attraversa, magari proprio quando abbiamo la
sensazione di non essere soli. Quando ci voltiamo per guardare indietro, per
capire se qualcuno non ci stia davvero spiando. Ci giriamo, con la certezza di
trovarlo là, appoggiato ad un muro mai sfiorato da raggi di un sole incapace di
scaldare, di liberare dall'umido, di strappare quella realtà ad un torpore
infinito, al quale è quasi impossibile non arrendersi.
Era così per Anna, che contava i passi verso casa,
assalita da una leggera inquietudine. Si impose di accelerare, anche se non la
stava seguendo proprio nessuno. Forse.
Le vie erano strette, e si avvertiva un fastidioso e
penetrante odore di muffa, di umidità stantia, incrostata nel tempo. Per
distrarsi ripiegò sulla musica, che arrivava dagli auricolari del lettore mp3.
Alzò leggermente il volume, cercando di mitigare, con un suono piacevole, quel
contesto così opprimente. Cominciò a rilassarsi: stava per giungere a casa; e
il battito del suo cuore rallentava, tornando normale.
Alcuni lavori in corso sul lastricato più frequentato e
familiare, la costrinsero a modificare leggermente l'itinerario che stava
seguendo. Tornò indietro, passando per un vicolo che non ricordava, che non era
più lungo di una cinquantina di metri. Non vedeva l'ora di chiudersi il portone
di casa alle spalle, fare una doccia e sdraiarsi sul piccolo divano.
“Perché aver paura?”. Si diede della stupida.
Sentì freddo, improvvisamente; tanto freddo. Un'ombra si
era rapidamente allungata alla sua destra. Gelida, forte, la richiamò a sé
senza fare alcun rumore, trascinandola dentro un piccolo androne buio,
attraverso una bocca storta e feroce, che si richiuse leggermente, nascondendo
le proprie miserie. Le parve di sentirla ridere, ma poteva essere solo
un'impressione. Le cuffiette si persero nella polvere che ricopriva il
pavimento.
Anna cerco di muoversi, di divincolarsi, ma senza
riuscirci. Era bloccata alle spalle da una morsa che non le permetteva di
liberarsi, che la stringeva, impedendole quasi di respirare. Provò ad urlare,
senza successo: non riusciva ad emettere alcun suono. Le sembrava di trovarsi
in una dimensione distorta; non una via d'uscita, una via di ritorno da quella
realtà di solitudine e dolore. Tutto intorno era buio, ma lei percepiva il
movimento delle pareti in pietra cantone, come se la casa deglutisse
lentamente, come se si stesse preparando ad inghiottirla. Paziente ed
implacabile, dopo anni di attesa, era pronta a rivivere momenti come quelli, a
gustarli con ragionata ed esasperante ferocia.
Anna temeva d'essere l'ennesima vittima del crimine più
odioso e devastante per una donna, quello che avrebbe lasciato un segno
indelebile nella memoria, una cicatrice pulsante sull'anima, più che sul corpo,
e per questo ancora più terribile ed angosciante. Sarebbe stata ancora più sola
di prima, più debole, più vulnerabile. Più della paura, forse, la bloccava la
certezza di una solitudine senza soluzione. Il suo viso si coprì di lacrime, e
lei smise di lottare, arrendendosi a quel terribile sentimento, ancor prima che
a quella presa che non smetteva di incatenarla.
Non accadde nulla di ciò che aveva temuto. C'era solo una
densa nebbia, che arrivava a coprirle gli occhi, quegli occhi che erano sempre
stati luminosi e sorridenti. Fu sorpresa da un dolore improvviso, intenso.
Riuscì ad emettere un rauco rantolo, presto soffocato dalla lama seghettata che
le strappava via la vita.
Cadde pesantemente, con la gola squarciata. Grondava
sangue quando, con un tonfo sordo, batté la tempia sulla soglia. Avvertì appena
il suo assassino che la scavalcava, uscendo dalla gola della casa, anticipato
da una porta che si apriva senza essere stata spinta. Un rivolo di sangue
superò la lastra di travertino, correndo lungo la base della parete esterna,
sino alla pietra carraia all'angolo della strada. Sottile, scuro, denso.
L'ombra si allontanava rapidamente, senza testimoni, senza guardarsi mai
indietro. Ma Anna non poteva più vederlo. Non aveva più chi gli aveva dato la
vita, non avrebbe mai saputo chi l'avesse rubata.
Nessuno si affacciò dalle finestre polverose e tetre.
Nessuno urlò dall'interno di quegli antri scuri e profondi, come nel peggiore
degli incubi che non si riescono a dimenticare. Si percepiva solo una sommessa
cantilena. Forse quella casa, quella porta, quell'androne buio si trovavano
davvero in un'altra dimensione, dentro la città. Forse non era affatto un mondo
parallelo, forse è la nostra stessa realtà ad attraversare bruscamente mondi
diversi, lontani nel tempo e nello spazio, ma che si riavvicinano, collimano
per attimi o per millenni, per poi separarsi, senza guardarsi indietro. Le case
continuavano a parlare fra loro, forse raccontandosi l'accaduto, facendosi
coraggio a vicenda, mentre si avvicinava rapidamente la sera, e con essa il
buio. Lontane, arrivavano urla di bimbi.
Anna morì a trent'anni, senza un perché. Accadde un
venerdì pomeriggio, di un inverno insolitamente caldo. Nessuno la ricorda più,
e nessuno seppe mai che fine avesse fatto quella bella ragazza riccia.
Aveva dei bellissimi occhi, che ridevano.
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